di LIVALCA - Avevo lasciato gli oggetti parlanti di casa D’Amaro in un ‘giardino cechoviano di ciliegi’ e li ritrovo più asciutti, stringati, concisi ed essenziali in quella Libia che ha visto ‘trionfare’ le gesta di Badoglio e Graziani e che fa dire a La Fontaine: «Nessun cammino di fiori conduce alla gloria».
Dopo la visita di fidati Amici è ricomparso come per incanto sulla mia scrivania, tavolo da lavoro per coloro che con pignoleria dicono che ogni oggetto possiede una propria identità e quindi nome, il volume di Sergio D’Amaro «Il grande ghibli» - edito da Besa in quella Nardò nota per l’edicola conosciuta come l’Osanna e ridente cittadina a sud-ovest di Lecce ai margini delle Murge salentine che un violento terremoto distrusse nel 1743 - e subito mi sono ricordato di una frase dell’autore che chiudeva la sua premessa e di cui cito il senso «l’essere umano costruisce solo rovine e…Cirene sta lì a memento»; tale affermazione mi aveva impressionato prima che il volume, trasportato da un ghibli nostrano, sparisse a maggio per raggiungere il Sahara e lasciando nel deserto più assoluto la mia memoria.
Questo ghibli, vento il cui nome di origine araba significa caldo e asciutto, non poteva non essere in sintonia con Cirene, figura della mitologia greca ed eponima della città di Cirene, figlia del re tessalo Ipseo e che riuscì a stupire il grande Apollo affrontando, a mani nude, un leone; Apollo la rapì (cambiano i tempi ma non i modi di…conquista!) e la condusse nel nord Africa dove, in forma di lupo (homo homini lupus?), la sposò e nacque Aristeo.
La città di Cirene, secondo Erodoto, fu fondata da Batto nel 630 a.C. e, dopo alterne fortune, si distinse per i conflitti con Cartagine e passata sotto Roma fu da Augusto unita alla provincia di Creta e procedendo negli anni ebbe discreta visibilità sotto Vespasiano e Traiano, notorietà con Adriano, decadenza con Diocleziano …fino a quando nel 1913 fu occupata dalle truppe italiane e seguì il destino della Libia.
Il romanzo (perché chiamare romanzo un saggio storico in cui non vi è nessun compiacimento ad ampliare la narrazione con particolari di fantasia, ma si cerca in ogni frangente di dare un senso, una risposta ai destini di tante famiglie di italiani che migrarono in Africa e agli abitanti della Tripolitania e Cirenaica che da dominio turco si trovarono a partire dal 1911, a seguito degli sbarchi italiani a Tripoli e Bengasi, a subire la sovranità del governo italiano) parte proprio da questa data e la ‘borsa’ di pelle che il protagonista della storie di D’Amaro usa come contenitore di fatti e avvenimenti è paragonabile a quel ‘silfio’, pianta secondo le fonti ufficiali oggi estinta, che cresceva proprio in prossimità della zona costiera della Cirenaica e rappresentava la maggiore fonte economica della regione, perché usata come medicinale e spezia.
Bene questa borsa, che riappare ‘magicamente’ per risvegliare la nostra ‘pietà’, è paragonabile a questo ‘silfio’ (un gigantesco finocchio selvatico odierno) che, secondo alcuni scienziati non si è mai estinto e corrisponde alla Ferula tingitana, e ci ricorda (memento?) come a volte la sete di potere dell’umanità possa cambiare il volto e la prospettiva di una o più generazioni. Desta grande meraviglia sapere che, secondo Plinio il Vecchio, questa pianta non curava solo i dolori, la tosse e la febbre, ma era adoperata come…contraccettivo per la prevenzione o interruzione della gravidanza (...solo la natura fa grandi cose per niente).
Il protagonista del racconto di D’Amaro parla di Giarabub (nel 2010 Giuseppe Decollanz pubblicò un libro prezioso dal titolo «I datteri di Giarabub» che andrebbe letto da chi si occupa professionalmente di politica e che si avvale di una dedica scarna quanto efficace ‘a mia madre, dal fascismo condannata alla vedovanza e alla povertà’), località della Cirenaica che vide avanzare in maniera imperiosa le nostre truppe e sconvolse la vita di intere città e villaggi. Certo vi era un sogno da realizzare: lavoro e ricchezza per tutti, in modo da evitare quelle partenze odiose e faticose verso l’America: non era nostra intenzione fare del male (…esiste una guerra in cui il bene supera il male?) a quella gente e pur bisognava ‘combattere’ e far scorrere del sangue. Quelle zone libiche andavano popolate, così esigeva la logica dell’Impero, e tanti italiani, alcuni non certo solo virtuosi, furono inviati a creare fortune nelle oasi. Certo all’inizio ci fu benessere, ma, finita la guerra, quando la Libia decise di confiscare i beni privati, frutto del lavoro italiano, la storia ha rimescolato le carte.
Le pagine che scrive D’Amaro sono bellissime e andrebbero lette nelle scuole come lezione di educazione civica, quella semplice educazione che forse è mancata nell’approccio con popolazioni che difendevano la loro storia. Nonostante il personaggio principale del libro di D’Amaro, ossia il padre dello scrittore, cerchi di mantenere un certo distacco anche dalle atrocità che gli eserciti quasi sempre commettono, appare evidente il suo imbarazzo nel riscontrare alcune anomalie tipo il reticolato della frontiera, opera colossale…nella sua colossale ‘inutilità’. Quel padre soldato di D’Amaro rivede davanti agli occhi quei corpi di uomini e donne, turchi che combattevano con cieco furore per difendere le loro città Bengasi, Derna, mentre un ottuso cannone faceva giustizia del loro coraggio.
Non è certo il ‘ghibli’ il vento dell’oblio: il vento può anche spostare milioni di granelli di sabbia, ma quella polvere ammucchiata, in apparenza inodore e pur pregna di tanto dolore, ci fa capire che vi è una verità che non si può ignorare, non solo perché lo diceva S. Giovanni « Chiunque odia il proprio fratello è un omicida», ma perché la storia, quella che prima o poi presenta un conto dove lo sconto è una questione di coscienza, ti ratifica che i sogni non devono mai ledere i diritti o i (bi)sogni di altri individui.
In un contesto mondiale in cui alcuni sognano guerre nucleari che, da una borsa di pelle ritrovata per caso, si levi (non Carlo il ‘torinese del Sud) una voce limpida, che afferma come sia una vuota illusione umana quella di poter dominare le superiori leggi della vita e del mondo, ci riconcilia con quella coscienza, bene supremo cui dovrebbe aspirare ogni individuo.
«IL GRANDE GHIBLI» è un piccoli libro che ha grandi ambizioni: non far dimenticare le lacrime, ma cercare di asciugarle ricorrendo a quella pietà che è l’unico tesoro che permette da sempre all’umanità di riprodursi e alla storia di non essere un freddo elenco di disgrazie e…delitti. Miserere.
Dopo la visita di fidati Amici è ricomparso come per incanto sulla mia scrivania, tavolo da lavoro per coloro che con pignoleria dicono che ogni oggetto possiede una propria identità e quindi nome, il volume di Sergio D’Amaro «Il grande ghibli» - edito da Besa in quella Nardò nota per l’edicola conosciuta come l’Osanna e ridente cittadina a sud-ovest di Lecce ai margini delle Murge salentine che un violento terremoto distrusse nel 1743 - e subito mi sono ricordato di una frase dell’autore che chiudeva la sua premessa e di cui cito il senso «l’essere umano costruisce solo rovine e…Cirene sta lì a memento»; tale affermazione mi aveva impressionato prima che il volume, trasportato da un ghibli nostrano, sparisse a maggio per raggiungere il Sahara e lasciando nel deserto più assoluto la mia memoria.
Questo ghibli, vento il cui nome di origine araba significa caldo e asciutto, non poteva non essere in sintonia con Cirene, figura della mitologia greca ed eponima della città di Cirene, figlia del re tessalo Ipseo e che riuscì a stupire il grande Apollo affrontando, a mani nude, un leone; Apollo la rapì (cambiano i tempi ma non i modi di…conquista!) e la condusse nel nord Africa dove, in forma di lupo (homo homini lupus?), la sposò e nacque Aristeo.
La città di Cirene, secondo Erodoto, fu fondata da Batto nel 630 a.C. e, dopo alterne fortune, si distinse per i conflitti con Cartagine e passata sotto Roma fu da Augusto unita alla provincia di Creta e procedendo negli anni ebbe discreta visibilità sotto Vespasiano e Traiano, notorietà con Adriano, decadenza con Diocleziano …fino a quando nel 1913 fu occupata dalle truppe italiane e seguì il destino della Libia.
Il romanzo (perché chiamare romanzo un saggio storico in cui non vi è nessun compiacimento ad ampliare la narrazione con particolari di fantasia, ma si cerca in ogni frangente di dare un senso, una risposta ai destini di tante famiglie di italiani che migrarono in Africa e agli abitanti della Tripolitania e Cirenaica che da dominio turco si trovarono a partire dal 1911, a seguito degli sbarchi italiani a Tripoli e Bengasi, a subire la sovranità del governo italiano) parte proprio da questa data e la ‘borsa’ di pelle che il protagonista della storie di D’Amaro usa come contenitore di fatti e avvenimenti è paragonabile a quel ‘silfio’, pianta secondo le fonti ufficiali oggi estinta, che cresceva proprio in prossimità della zona costiera della Cirenaica e rappresentava la maggiore fonte economica della regione, perché usata come medicinale e spezia.
Bene questa borsa, che riappare ‘magicamente’ per risvegliare la nostra ‘pietà’, è paragonabile a questo ‘silfio’ (un gigantesco finocchio selvatico odierno) che, secondo alcuni scienziati non si è mai estinto e corrisponde alla Ferula tingitana, e ci ricorda (memento?) come a volte la sete di potere dell’umanità possa cambiare il volto e la prospettiva di una o più generazioni. Desta grande meraviglia sapere che, secondo Plinio il Vecchio, questa pianta non curava solo i dolori, la tosse e la febbre, ma era adoperata come…contraccettivo per la prevenzione o interruzione della gravidanza (...solo la natura fa grandi cose per niente).
Il protagonista del racconto di D’Amaro parla di Giarabub (nel 2010 Giuseppe Decollanz pubblicò un libro prezioso dal titolo «I datteri di Giarabub» che andrebbe letto da chi si occupa professionalmente di politica e che si avvale di una dedica scarna quanto efficace ‘a mia madre, dal fascismo condannata alla vedovanza e alla povertà’), località della Cirenaica che vide avanzare in maniera imperiosa le nostre truppe e sconvolse la vita di intere città e villaggi. Certo vi era un sogno da realizzare: lavoro e ricchezza per tutti, in modo da evitare quelle partenze odiose e faticose verso l’America: non era nostra intenzione fare del male (…esiste una guerra in cui il bene supera il male?) a quella gente e pur bisognava ‘combattere’ e far scorrere del sangue. Quelle zone libiche andavano popolate, così esigeva la logica dell’Impero, e tanti italiani, alcuni non certo solo virtuosi, furono inviati a creare fortune nelle oasi. Certo all’inizio ci fu benessere, ma, finita la guerra, quando la Libia decise di confiscare i beni privati, frutto del lavoro italiano, la storia ha rimescolato le carte.
Le pagine che scrive D’Amaro sono bellissime e andrebbero lette nelle scuole come lezione di educazione civica, quella semplice educazione che forse è mancata nell’approccio con popolazioni che difendevano la loro storia. Nonostante il personaggio principale del libro di D’Amaro, ossia il padre dello scrittore, cerchi di mantenere un certo distacco anche dalle atrocità che gli eserciti quasi sempre commettono, appare evidente il suo imbarazzo nel riscontrare alcune anomalie tipo il reticolato della frontiera, opera colossale…nella sua colossale ‘inutilità’. Quel padre soldato di D’Amaro rivede davanti agli occhi quei corpi di uomini e donne, turchi che combattevano con cieco furore per difendere le loro città Bengasi, Derna, mentre un ottuso cannone faceva giustizia del loro coraggio.
Non è certo il ‘ghibli’ il vento dell’oblio: il vento può anche spostare milioni di granelli di sabbia, ma quella polvere ammucchiata, in apparenza inodore e pur pregna di tanto dolore, ci fa capire che vi è una verità che non si può ignorare, non solo perché lo diceva S. Giovanni « Chiunque odia il proprio fratello è un omicida», ma perché la storia, quella che prima o poi presenta un conto dove lo sconto è una questione di coscienza, ti ratifica che i sogni non devono mai ledere i diritti o i (bi)sogni di altri individui.
In un contesto mondiale in cui alcuni sognano guerre nucleari che, da una borsa di pelle ritrovata per caso, si levi (non Carlo il ‘torinese del Sud) una voce limpida, che afferma come sia una vuota illusione umana quella di poter dominare le superiori leggi della vita e del mondo, ci riconcilia con quella coscienza, bene supremo cui dovrebbe aspirare ogni individuo.
«IL GRANDE GHIBLI» è un piccoli libro che ha grandi ambizioni: non far dimenticare le lacrime, ma cercare di asciugarle ricorrendo a quella pietà che è l’unico tesoro che permette da sempre all’umanità di riprodursi e alla storia di non essere un freddo elenco di disgrazie e…delitti. Miserere.
Ottima nota.
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