di FREDERIC PASCALI - L’espressione e le movenze di John Goodman, tratteggiate come in una qualche detective story di rango, già basterebbero per assegnare una cifra di notevole favore al lavoro diretto da Rupert Wyatt. La sua è una storia di libertà che usa la fantascienza per affondare le radici in un thriller destinato a cambiare gli equilibri e a tracimare nel territorio dell’inusuale.
In un parallelo presente distopico una forza aliena ha preso il controllo del pianeta Terra. Dopo una breve lotta gli Stati Uniti sono pervenuti a un armistizio lasciando a loro, i “Legislatori”, il governo della nazione. Ma non tutti si sono rassegnati a questo stato di cose e nove anni dopo, nel 2025, William Mulligan, capitano della polizia di Chicago, vuole scoprire se una qualche organizzazione clandestina è ancora in essere. Lo fa seguendo i movimenti di Gabriel, un giovane ragazzo di colore figlio del suo ex collega morto anni prima in un tentativo di fuga.
“Captive State”, con l’etichetta di cult movie già pronta, è senza dubbio una delle produzioni di fantascienza più interessanti degli ultimi anni. Secca come un pugno nello stomaco, la sceneggiatura, dello stesso Wyatt e della moglie Erica Beeney, senza indugiare troppo con gli effetti speciali fa scivolare con grande efficacia tutto il repertorio del thriller innescando, già dalle prime battute, una tensione narrativa che in ogni sequenza pare sempre pronta a esplodere.
Efficaci sparring partner si rivelano la cupa fotografia di Alex Disenhof, che tratteggia la luce con tale caustica espressività da sembrare voler trasformare il colore nei più asettico dei bianco e nero, e la musica sottilmente martellante di Rob Simonsen che costantemente preannuncia e inchioda tutti al proprio destino. Conclude il quadro un cast decisamente all’altezza con il già citato John Goodman, “Mulligan”, assoluto padrone della scena, affiancato, tra gli altri, dagli ottimi Ashton Sanders, “Gabriel”, Jonathan Majors, “Rafe”, Vera Farmiga, “Jane”, e Kevin Dunn, “Il Commissario”.