Quel poeta un pò filosofo, Cosimo Russo
di FRANCESCO GRECO - “Sono a un bivio,/ incerto sulla via da percorrere./ Da una parte la lusinga di un/ Dio col Paradiso/. Dall’altra l’indipendenza solitaria di Cartesio;/ ovunque vada ho fatto provvista/ di Devi”.
Se cerchi una password per accedere pudicamente e tentare di decodificare l’universo di un poeta, la seconda silloge di Cosimo Russo declina nell’esistenziale e nel filosofico, nella terra desolata delle eterne domande dell’uomo, agganciandosi alla grande tradizione della poesia europea e del mondo classico che la contiene.
Se la prima raccolta, “Per poco tempo” (Manni, 2017) può essere letta come una poesia sperimentale, di formazione, di scoperta di se stesso, degli altri e del mondo intorno col suo kharma e pathos, visti con lo sguardo dell’albatros di Baudelaire, quella appena uscita, “Ancora una volta” (Manni, Lecce 2019, pp. 144, euro 16,00, collana ”Pretesti” a cura di Anna Grazia D’Oria, cover di Giancarlo Greco: il 7 agosto presentazione all’Oratorio parrocchiale di Gagliano, il 27 a Lucugnano, Palazzo Comi, letture dell’attrice Francesca Stajano Sasson), svela un poeta (e un uomo) maturo, cosciente del “dono” avuto dagli déi che sa usare con innocenza e dolcezza, tormento ed estasi: “Lo so, la mia poesia vacilla/ come olive/ nelle mani di un contadino…”.
Pudico, appartato, coinvolto, nella sua breve parabola Russo (era nato a Gagliano nel 1972, laurea in Economia e Commercio, ha lasciato la moglie Lucia Ciardo e le figlie Chiara e Sofia) non ha pubblicato niente: semplicemente non s’era posto la questione, ma forse stava per decidersi a farlo.
Scriveva su quaderni e fogli volanti che conservava (“versi che ora implodono nei cassetti”) dice come avesse il presentimento di non vedere mai la sua opera nelle mani del lettore incantato.
Quel che oggi ci è dato conoscere è il frutto del lavoro amorevole di ricognizione e trascrizione della madre, Luigina Paradiso (bibliotecaria storica nella città di Vincenzo Ciardo), che riordina le “sudate carte” attingendo a uno scrigno (“Non importa al gabbiano/ di planare/ sugli scrigni delle ossessioni…”) senza fondo, colmo di tesori, che ci darà ancora altri versi in futuro.
“Ancora una volta” ha una sua struttura estetica e filologica, un mainstream: si compone di 100 poesie divise in due parti, le prime 35 risalgono agli anni 2015-2016, gli ultimi vissuti dal poeta atteso da una sorte crudele quanto ingiusta e forse evitabile. Le altre 65 sono state estrapolate dalla grande mole di materiale inedito e non hanno una cronologia ben delineata, anche se c’è da pensare che sono precedenti.
Se ogni poeta è una voce a sé, con un destino forse già scritto, in questa seconda pubblicazione sono evidenti gli echi del tormento leopardiano: la solitudine e lo smarrimento dinanzi al cosmo e ai suoi infiniti misteri (“Salita la notte,/ il cielo stellato ha inventato il mondo e le/ forme…”), la natura materna ma anche matrigna come rifugio (“Provo a respirare / come se stessi per morire…”, “Incanto di Leuca”), la conoscenza quale balsamo per lenire le ferite della vita e sopportare il dolore senza esserne travolti.
Russo si interroga sul suo essere (“Non so perché scrivo poesie…/ o per celebrazioni/ o come difesa dal nulla/ per bisogno di perfezione/ che non trovo in nessuna religione”). Si pone le domande di sempre, mutuate dai poeti classici greci e romani, attuali anche oggi al tempo virale che attraversiamo inquieti e senza pace: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, che ci facciamo qui, il senso delle parole, il destino ultimo delle cose e di noi stessi.
Interrogativi aspri (“Dietro questi ulivi che c’è./ Dietro questi fichi che c’è…/ Ditemi le loro sillabe…”), dalle risposte sfuggenti, inafferrabili, immutate nel tempo, ben consapevoli dei nostri limiti e che “Non siamo nessuno,/ fuori da questi santuari/ della speranza/ fuori da questo spazio euclideo…”.
Solo il poeta per definizione può osare, sfiorare il mistero e farcene dono. Cosimo Russo il “filosofo” ha avuto questo privilegio. Che ha condiviso con noi suoi contemporanei. La sua partenza inattesa e lacerante ci fa riflettere sulla vulnerabilità dell’uomo insonne e debole e sul magma denso del tutto, ma al suo nucleo più intimo, segreto, contiene anche un rimpianto: chissà quanti versi ci sono stati negati con la sua assenza improvvisa ma ancora presente fra noi e che sempre lo sarà, in attesa di un nuovo inizio?
“Le mie braccia tendono/ aspre e dolenti sull’aurora/ del giorno…”. Forse accade anche nell’Olimpo dei poeti e tutto ricomincia e la sua assenza è solo il proseguimento del viaggio accanto a noi: la poesia è una lingua universale parlata da loro e da noi.