di FREDERIC PASCALI - Dove alberga il coraggio di un uomo? Nella sua testa, nel suo cuore, negli occhi di chi lo ama? E fin dove è possibile spingersi senza cedere al gusto tronfio della messa in mostra di sé?
A queste domande il talentuoso Pietro Marcello offre risposte per mezzo del libero adattamento cinematografico di un romanzo di Jack London, risalente ai primi anni del ‘900, ambientato in una San Francisco teatro delle rivendicazioni dei lavoratori alla ricerca di una condizione migliore e di una propria coscienza di classe.
Il “Martin Eden” di Marcello, conservando lo spirito di rivalsa dell’originale, sposta la scena in una Napoli trasfigurata dal tempo reso spesso indefinito e genitore di un ordine cronologico prigioniero di una sorta di limbo che abbraccia tutto il secolo passato e le contraddizioni tra la spinta socialista e la necessità di riportare l’individuo e la sua forza di volontà al centro del mondo. Un conflitto che sin da subito arrovella l’animo inquieto di Martin, un umile marinaio inizialmente sedotto dal tocco della borghesia incarnato dalla giovane e affascinante Elena, spinto a rincorrere la propria emancipazione e autodeterminazione nello “studio matto” e nella vocazione per il mestiere di scrittore.
Il destino maudit nella pellicola di Marcello si palesa già dalle prime sequenze e persino i momenti di serenità sembrano affliggersi in un continuo presentimento di una parabola che in qualche modo deve compiersi. La macchina da presa, mai banale nelle sue inquadrature, scandisce i punti di svolta del racconto filmico con richiami che ricordano i vecchi sceneggiati televisivi degli anni ‘60/’70, indugiando sulle vertigini umorali del protagonista, tracciando primi e primissimi piani in sintonia con l’intensità interpretativa di Luca Marinelli,”Martin”, recente vincitore della Coppa Volpi alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Tuttavia la sceneggiatura, dello stesso Marcello e di Maurizio Braucci, dà l’impressione di non riuscire a governare appieno i marasmi che contribuisce a creare, con qualche ampollosità di troppo che s’insinua nelle già complesse curve narrative. Nel novero dei plausi finali trovano senz’altro posto la fotografia “in tinta” di Alessandro Abate e Francesco Di Giacomo, la colonna sonora di Marco Messina e Sacha Ricci e il resto del cast capitanato da Carlo Cecchi, “Russ Brissendan”, e Jessica Cressy, “Elena”.