di FRANCESCO GRECO - Seconda guerra mondiale: 50mila prigionieri italiani furono mandati negli Stati Uniti e distribuiti in 140 campi sparsi dall’Atlantico al Pacifico.
Le dinamiche di una guerra sono sempre misteriose, imprevedibili, come la vita. Nel passato e oggi.
L’ultima, per dire. Ci fu chi morì alle porte di Leningrado, di freddo e fame, chi fu internato in Germania e lavorò nelle grandi fabbriche e chi finì in Pennsylvania, a Letterkenny, dove fu impiegato nel ramo bellico di zio Sam e costruì una chiesa, oggi monumento nazionale, assistito spiritualmente da preti italo-americani.
A’ la guerre comme a la guerre: i soldati italiani fatti prigionieri in tutto furono un milione e 200mila. Di questi, 600mila furono quelli fatti dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre 1943, quando la guerra cambiò registro. I restanti 600mila li fecero gli Alleati: 408mila gli inglesi, 70/80mila i sovietici, 35mila i francesi, 125mila gli americani. Di questi, 75mila restarono nell’Africa settentrionale per essere poi aggregati all’avanzata degli Alleati in Francia a Germania. Gli altri presero la via dell’America.
La storiografia ha sinora trattato poco questo filone di ricerca. A colmare tale lacuna, Flavio Giovanni Conti e Alan R. Perry in “Prigionieri di guerra italiani in Pennysilvania 1844-1945”, il Mulino, Bologna 2018, pp. 372, euro 30,00. Entrambi storici autorevoli per cv (non di quelli taroccati), hanno fatto una ricerca davvero meticolosa e attenta, recuperando documenti e relazionandosi con molti famigliari di quegli italiani, in possesso di materiali inediti, frugando negli archivi di mezzo mondo, attingendo a una bibliografia sconfinata. Ne esce uno spaccato ricco di vissuto, multiforme, polisemico: storico, antropologico, sociologico, umano, estremamente contaminato, semanticamente intrecciato.
Dalla cattura al ritorno nell’Italia post-bellica come cittadini liberi, i soldati italiani (di cui si pubblica un elenco dove abbiamo trovato il nostro zio Vito da Lucugnano) sono proposti nella quotidianità, nel lavoro appassionato, negli affetti sospesi, nelle relazioni col paese ospitante, nella vita che continua e dove progettano di tornare. “A oltre settant’anni dalla fine delle ostilità e dal rimpatrio dei prigionieri – dicono gli autori – vogliamo rendere omaggio a quei soldati che, spontaneamente, fecero del loro meglio per riabilitare il loro paese dopo la tragica esperienza del fascismo, dell’alleanza e dell’entrata in guerra con la Germania, collaborando con gli americani e contribuendo, con il loro lavoro, ad accelerare la fine della guerra”.
Ancora una volta mostrammo di essere unici nelle guerre, come aveva intuito Hemingway, che della materia ne sapeva. D’altronde, del fatto di reagire a ogni situazione e di arrangiarci (come nel film di Dino Risi “La grande guerra”) abbiamo fatto un’arte, anzi, un archetipo. E questo ci salva sempre: dalla depressione e a volte anche la vita. Italiani, brava gente!
A’ la guerre comme a la guerre: i soldati italiani fatti prigionieri in tutto furono un milione e 200mila. Di questi, 600mila furono quelli fatti dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre 1943, quando la guerra cambiò registro. I restanti 600mila li fecero gli Alleati: 408mila gli inglesi, 70/80mila i sovietici, 35mila i francesi, 125mila gli americani. Di questi, 75mila restarono nell’Africa settentrionale per essere poi aggregati all’avanzata degli Alleati in Francia a Germania. Gli altri presero la via dell’America.
La storiografia ha sinora trattato poco questo filone di ricerca. A colmare tale lacuna, Flavio Giovanni Conti e Alan R. Perry in “Prigionieri di guerra italiani in Pennysilvania 1844-1945”, il Mulino, Bologna 2018, pp. 372, euro 30,00. Entrambi storici autorevoli per cv (non di quelli taroccati), hanno fatto una ricerca davvero meticolosa e attenta, recuperando documenti e relazionandosi con molti famigliari di quegli italiani, in possesso di materiali inediti, frugando negli archivi di mezzo mondo, attingendo a una bibliografia sconfinata. Ne esce uno spaccato ricco di vissuto, multiforme, polisemico: storico, antropologico, sociologico, umano, estremamente contaminato, semanticamente intrecciato.
Dalla cattura al ritorno nell’Italia post-bellica come cittadini liberi, i soldati italiani (di cui si pubblica un elenco dove abbiamo trovato il nostro zio Vito da Lucugnano) sono proposti nella quotidianità, nel lavoro appassionato, negli affetti sospesi, nelle relazioni col paese ospitante, nella vita che continua e dove progettano di tornare. “A oltre settant’anni dalla fine delle ostilità e dal rimpatrio dei prigionieri – dicono gli autori – vogliamo rendere omaggio a quei soldati che, spontaneamente, fecero del loro meglio per riabilitare il loro paese dopo la tragica esperienza del fascismo, dell’alleanza e dell’entrata in guerra con la Germania, collaborando con gli americani e contribuendo, con il loro lavoro, ad accelerare la fine della guerra”.
Ancora una volta mostrammo di essere unici nelle guerre, come aveva intuito Hemingway, che della materia ne sapeva. D’altronde, del fatto di reagire a ogni situazione e di arrangiarci (come nel film di Dino Risi “La grande guerra”) abbiamo fatto un’arte, anzi, un archetipo. E questo ci salva sempre: dalla depressione e a volte anche la vita. Italiani, brava gente!