'Mamma Roma', un granchio contro il Fato
di WALTER CANNELLONI - ROMA. Il grande scrittore catanese Giovanni Verga, aristocratico di nascita, socialista per scelta, elaborò, all'interno della sua poetica letteraria, una precisa teoria sociale: per quanti sforzi facciano le classi subalterne per migliorare la propria condizione, la marea dei vinti li lascerà inesorabilmente sconfitti sulla spiaggia della vita, come tanti, piccoli granchi che non riusciranno mai a raggiungere il mare del successo.
Messaggio ideologicamente ambiguo, per un socialista come Verga, che avrebbe dovuto teorizzare il progresso ineluttabile delle classi popolari: e questa ambiguità ideologica è la stessa che si percepisce alla visione di questo film del grande regista e scrittore Pier Paolo Pasolini.
Si racconta infatti qui la storia di Mamma Roma, verace prostituta romana, che lascia il marciapiede dopo vent'anni (il suo sfruttatore, Carmine, si è sposato e vive in campagna) e vuole dedicarsi al figlio diciassettenne Ettore, che va a riprendersi, dopo che ha passato l'infanzia lì, in quel di Guidonia (“in mezzo ai burini” dice lei).
In vista del tanto agognato riscatto sociale, Mamma Roma ha acquistato, con i proventi del mestiere più antico del mondo, una casa dalle parti di Don Bosco, a Cinecittà, dove va a vivere con il figlio.
Spera, in questo nuovo quartiere, di trovare una vita tranquilla (ha anche acquistato una licenza da fruttivendola al mercato rionale) e spera soprattutto che il figlio Ettore viva un'esistenza di studio o di lavoro come una persona perbene.
Ma il giovanotto sembra avere altre intenzioni: gironzola tutto il giorno per le strade del rione e, in aggiunta a ciò, si innamora di Bruna, ragazza dai facili costumi con tanto di figlioletto a carico.
Per lei giunge a vendere a un rigattiere di dubbia moralità i dischi della madre e altre chincaglierie di poco conto che trova in casa.
Dopo aver parlato con un prete che non le dà le risposte necessarie, Mamma Roma passa all'azione. Coadiuvata dalla sua ex-collega di marciapiede Biancofiore, la genitrice, con un'abile messa in scena che incastra il proprietario del ristorante “Ciceruacchio” di Trastevere, riesce finalmente a far assumere il figlio come cameriere in quel prestigioso locale.
E, grazie all'arte amatoria di Biancofiore, alla quale Mamma Roma chiede il piacere di giacere con il figlio, anche la pericolosa Bruna sembra dimenticata.
Quando tutto sembra filare per il verso giusto (e Mamma Roma piange di gioia per questa felicità raggiunta), il destino avverso, come nella Quinta Sinfonia di Beethoven, bussa ancora una volta alla sua porta.
Carmine si è lasciato con la moglie, è tornato a Roma, e vuole riallacciare una relazione con Mamma Roma (salvo poi mandarla a “battere” come ai vecchi tempi).
Al diniego della donna, Carmine rivela al figlio ignaro il passato compromettente della madre. Ettore si licenzia così da “Ciceruacchio” e torna a bighellonare per le vie del quartiere con dei poco di buono, dedicandosi a piccoli furti che gli danno quel po' di denaro che non vuole accettare più dalla madre.
Mamma Roma torna sul marciapiede e, tra un cliente e l'altro, rimugina tra sé e sè: ”Se tutti gli accattoni, le prostitute e gli sfruttatori del mondo avessero avuto almeno un'opportunità, non sarebbero diventati accattoni, prostitute e sfruttatori. E di chi è la colpa se non della società?”.
La storia, come preconizzato da Carmine, finisce male per Mamma Roma: Ettore si fa beccare mentre ruba degli oggetti di poco conto ai degenti soli di un ospedale romano, finisce nel carcere di Regina Coeli e, debilitato da una malattia, morirà su un letto di contenzione del penitenziario, solo e invocando la madre.
La quale, quando viene a sapere della morte del figlio, tenterà di suicidarsi gettandosi dalla finestra di casa: verrà salvata dai vicini e dalla vista della chiesa di Don Bosco illuminata dal sole.
Perchè, a dominare su tutta questa tragica vicenda, c'è la periferia urbana di Roma degli Anni Sessanta, straziata dalle inquietanti colate di cemento realizzate allora per costruire quei casermoni-dormitorio dell'INA-casa del Quadraro, tutti uguali, e che contaminano l'idilliaco quadro dei resti del Parco degli Acquedotti della Roma imperiale.
Scene da non perdere: Mamma Roma che canta a squarciagola stornelli romani per “sfottere” Carmine che si sta sposando; Mamma Roma che balla un appassionato tango con il figlio nella casa nuova sulle note di “Violino tzigano”; Ettore che giace esanime, ormai deceduto, sul letto di contenzione del carcere, in una posa plastica che è un evidente richiamo pittorico al “Cristo morto” del Mantegna (anche se Pier Paolo Pasolini ha sempre smentito questa citazione visiva, preferendo richiamarsi a una assurda e originale mistione tra Masaccio e Caravaggio).
E, a giganteggiare sulla pellicola come e meglio di una star hollywoodiana, c'è lei, la per noi bellissima Anna Magnani, un'intensissima Mamma Roma, questo “piccolo granchio” che cerca di ostacolare con tutte le sue forze quella marea della vita che, alla fine, la sommergerà.
Regia: Pier Paolo Pasolini; sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; fotografia Tonino Delli Colli; musica: Antonio Vivaldi; interpreti: Anna Magnani, Franco Citti, Ettore Garofalo, Silvana Corsini.
Produzione: Italia 1962.
Messaggio ideologicamente ambiguo, per un socialista come Verga, che avrebbe dovuto teorizzare il progresso ineluttabile delle classi popolari: e questa ambiguità ideologica è la stessa che si percepisce alla visione di questo film del grande regista e scrittore Pier Paolo Pasolini.
Si racconta infatti qui la storia di Mamma Roma, verace prostituta romana, che lascia il marciapiede dopo vent'anni (il suo sfruttatore, Carmine, si è sposato e vive in campagna) e vuole dedicarsi al figlio diciassettenne Ettore, che va a riprendersi, dopo che ha passato l'infanzia lì, in quel di Guidonia (“in mezzo ai burini” dice lei).
In vista del tanto agognato riscatto sociale, Mamma Roma ha acquistato, con i proventi del mestiere più antico del mondo, una casa dalle parti di Don Bosco, a Cinecittà, dove va a vivere con il figlio.
Spera, in questo nuovo quartiere, di trovare una vita tranquilla (ha anche acquistato una licenza da fruttivendola al mercato rionale) e spera soprattutto che il figlio Ettore viva un'esistenza di studio o di lavoro come una persona perbene.
Ma il giovanotto sembra avere altre intenzioni: gironzola tutto il giorno per le strade del rione e, in aggiunta a ciò, si innamora di Bruna, ragazza dai facili costumi con tanto di figlioletto a carico.
Per lei giunge a vendere a un rigattiere di dubbia moralità i dischi della madre e altre chincaglierie di poco conto che trova in casa.
Dopo aver parlato con un prete che non le dà le risposte necessarie, Mamma Roma passa all'azione. Coadiuvata dalla sua ex-collega di marciapiede Biancofiore, la genitrice, con un'abile messa in scena che incastra il proprietario del ristorante “Ciceruacchio” di Trastevere, riesce finalmente a far assumere il figlio come cameriere in quel prestigioso locale.
E, grazie all'arte amatoria di Biancofiore, alla quale Mamma Roma chiede il piacere di giacere con il figlio, anche la pericolosa Bruna sembra dimenticata.
Quando tutto sembra filare per il verso giusto (e Mamma Roma piange di gioia per questa felicità raggiunta), il destino avverso, come nella Quinta Sinfonia di Beethoven, bussa ancora una volta alla sua porta.
Carmine si è lasciato con la moglie, è tornato a Roma, e vuole riallacciare una relazione con Mamma Roma (salvo poi mandarla a “battere” come ai vecchi tempi).
Al diniego della donna, Carmine rivela al figlio ignaro il passato compromettente della madre. Ettore si licenzia così da “Ciceruacchio” e torna a bighellonare per le vie del quartiere con dei poco di buono, dedicandosi a piccoli furti che gli danno quel po' di denaro che non vuole accettare più dalla madre.
Mamma Roma torna sul marciapiede e, tra un cliente e l'altro, rimugina tra sé e sè: ”Se tutti gli accattoni, le prostitute e gli sfruttatori del mondo avessero avuto almeno un'opportunità, non sarebbero diventati accattoni, prostitute e sfruttatori. E di chi è la colpa se non della società?”.
La storia, come preconizzato da Carmine, finisce male per Mamma Roma: Ettore si fa beccare mentre ruba degli oggetti di poco conto ai degenti soli di un ospedale romano, finisce nel carcere di Regina Coeli e, debilitato da una malattia, morirà su un letto di contenzione del penitenziario, solo e invocando la madre.
La quale, quando viene a sapere della morte del figlio, tenterà di suicidarsi gettandosi dalla finestra di casa: verrà salvata dai vicini e dalla vista della chiesa di Don Bosco illuminata dal sole.
Perchè, a dominare su tutta questa tragica vicenda, c'è la periferia urbana di Roma degli Anni Sessanta, straziata dalle inquietanti colate di cemento realizzate allora per costruire quei casermoni-dormitorio dell'INA-casa del Quadraro, tutti uguali, e che contaminano l'idilliaco quadro dei resti del Parco degli Acquedotti della Roma imperiale.
Scene da non perdere: Mamma Roma che canta a squarciagola stornelli romani per “sfottere” Carmine che si sta sposando; Mamma Roma che balla un appassionato tango con il figlio nella casa nuova sulle note di “Violino tzigano”; Ettore che giace esanime, ormai deceduto, sul letto di contenzione del carcere, in una posa plastica che è un evidente richiamo pittorico al “Cristo morto” del Mantegna (anche se Pier Paolo Pasolini ha sempre smentito questa citazione visiva, preferendo richiamarsi a una assurda e originale mistione tra Masaccio e Caravaggio).
E, a giganteggiare sulla pellicola come e meglio di una star hollywoodiana, c'è lei, la per noi bellissima Anna Magnani, un'intensissima Mamma Roma, questo “piccolo granchio” che cerca di ostacolare con tutte le sue forze quella marea della vita che, alla fine, la sommergerà.
Regia: Pier Paolo Pasolini; sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; fotografia Tonino Delli Colli; musica: Antonio Vivaldi; interpreti: Anna Magnani, Franco Citti, Ettore Garofalo, Silvana Corsini.
Produzione: Italia 1962.