di ROBERTO BERLOCO - Altamura. Chissà in quanti, tra altamurani tali anche da molte generazioni, hanno almeno un’idea di quali siano le radici genetiche del popolo al quale originariamente appartengono. Ricorderanno certamente tutti il nome dei loro nonni, ma già andando poco indietro nel tempo, magari alla figura dei padri dei loro nonni o, qualche passo più in là, a quella dei trisavoli, non stupirebbe di veder una fitta nebbia innalzarsi rapidamente, lesta ad invader le menti della maggioranza, il cui orgoglio finirà per arrendersi di fronte al dato compiuto del non sapere.
Chissà, poi, verrebbe anche da domandarsi, in che senso gioverebbe d’apprendere, per filo e per segno, luogo preciso, data di nascita e di morte di tutti i propri avi, considerato che risulta scontato e nell’ordine naturale dell’umana esistenza, il fatto che si nasca e si muoia da qualche parte, mentre nel frattempo si procrei. Di certo, però, v’è che un’utilità si ravviserebbe pure e sia pure di carattere squisitamente culturale, qualora possa giungersi ad aver contezza perlomeno dell’effettiva nazione di cui i propri antenati ebbero il sangue in un dato momento storico, nonchè delle concrete motivazioni che spinsero costoro ad impiantar casa nell’urbe che, oggi, da inconsapevoli discendenti, si dà fieramente per patria da sempre.
Poiché si sfida il buio pesto d’un passato che scivola in secoli e secoli dietro, gettar luce sul terreno di questo speciale tema, riuscirebbe probabilmente impresa titanica e subito rinunciabile, ma forse non così tanto se si provasse solo a lampeggiar lungo appena uno dei suoi solchi.
Al momento della rifondazione della città per volere di Federico II di Svevia, tra le popolazioni migrate da località più o meno vicine, attirate dai privilegi fiscali stabiliti nell’editto di costituzione dell’illuminato monarca, v’erano già, secondo fonti d’epoca remota, porzioni di stirpe greca, considerate in qualche modo “autoctone”. A queste s’aggiunsero poi, gradualmente, nuclei familiari originari del Salento.
Si trattava di quelle genti che, dalla Grecia, avevano raggiunto la penisola salentina durante l’Alto Medioevo, per un fenomeno d’immigrazione di varia circostanza. Da una parte, quella dovuta alla risalente dominazione bizantina che, dopo la guerra greco-gotica, perdurò sino al cambio di guardia da parte dei Normanni. Dall’altra e soprattutto, quella verificatasi a seguito delle campagne militari dell’imperatore Basilio I il Macedone contro le pretese arabe in Puglia e, successivamente, per effetto dell’arrivo di ulteriori gruppi, però stavolta dalla Sicilia e dalla Calabria, composte di fuochi di lingua greca spinti a trovar rifugio nell’area a meridione del Tacco, sotto la pressione dei Saraceni d’Africa.
Si conosce per assodato, ad esempio, che Gallipoli venisse rinvigorita da coloni provenienti da Eraclea Pontica e proprio per volere di Basilio, o che alcune migliaia d’abitanti del Peloponneso fossero trapiantati in Puglia su ordine di Leone VI il Saggio, che la tradizione indica figlio dello stesso Basilio.
Di questa particolare provenienza dall’estremità meridionale pugliese, dunque, tra i gruppi che si stanziarono dentro la sorgente Altamura sveva, e proprio questi a porre energia nella costruzione di tre chiese: San Nicola, Santa Maria Maggiore e San Giovanni Battista. Tre immobili che saranno dedicati al culto cristiano ma, perlomeno nelle intenzioni a fondamento, al di fuori della giurisdizione ecclesiastica che faceva capo al Pontefice romano. Già, perché coloro che li erigono, sono sì cristiani, ma di professione ortodossa. Per essi, la massima autorità spirituale non risiede a Roma, bensì a Costantinopoli, incarnata dalla figura del suo Patriarca e com’era, in maniera ufficiale e definitiva, sin dal 1054, anno del cosiddetto Scisma d’Oriente.
Ora, non deve meravigliare che una delle prime premure dei Greci, che andavano insediandosi nella rinascente Altamura, fosse d’erigere pievi laddove avrebbero risieduto.
Dei popoli che, in un certo trapassato, conquistarono la razionalità e inventarono la filosofia nelle propaggini meridionali della penisola balcanica, d’altronde gli stessi ai quali si deve la fondazione della Magna Grecia lungo buona parte delle coste meridionali della penisola italica e di quella che, anticamente, fioriva nota col nome di Trinacria, difatti è ben nota la profonda ed innata spiritualità, testimoniata dall’edificazione di templi dedicati ad una nutrita schiera di divinità.
Una spiritualità, nella sostanza quasi d’una componente genetica insradicabile, conservatasi naturalmente intatta anche dopo la conversione al Cristianesimo, avvenuta peraltro grazie anche ad uno storico protagonista della fede del calibro di Paolo di Tarso.
Tra le chiese di matrice greco-ortodossa che videro luce ad Altamura, di certo quella dedicata a San Nicola è la più nota, anche per via della sua immediata riconoscibilità visiva, essendo posizionata lungo il Corso cittadino e, peraltro, a poca distanza dalla Cattedrale di rito latino, dedicata all’Assunta.
In effetti, oltre a rappresentare uno storico monumento sacro e un luogo deputato a funzioni religiose, ancor in essere e, però, secondo il costume cattolico, parrebbe addirittura, almeno agli occhi di chi ne conosca la genesi, un presidio di quello che, più o meno propriamente, avrebbe potuto passare per il quartiere greco dell’Altamura medievale.
Se s’esclude l’edificio di San Giovanni Battista, oggi non più esistente, ma un tempo collocato nell’attuale piazzetta dedicata al Precursore, e guardando alla dislocazione dei due restanti emerge, infatti, quello che, a tutta vista, potrebbe andare ipotizzato come lo spazio maggiormente abitato dai nuovi immigrati dell’epoca. Congiungendo, anzi, il cardine geografico di San Nicola all’altro, sempre all’interno della cinta muraria, ma proprio sotto il suo limitare, vale a dire Santa Maria Maggiore, affacciata sull’attuale via La Maggiore, sembrerebbe pronunciarsi un’idea addirittura probabile dello sviluppo dell’insediamento greco all’interno della città d’allora, con un’espansione urbanistica immersa nella parte più digradante del fronte scosceso sul quale, un tempo, sorgeva l’acropoli peuceta. Conforterebbe in questa direzione, il dato storico certo della concentrazione almeno delle abitazioni delle famiglie dei presbiteri greci, nelle immediate prossimità della struttura dedicata al Vescovo di Myra.
In tutte e tre le chiese, tuttavia, il culto nella formula ortodossa vi venne esercitato o, sarebbe meglio dire, vi venne permesso, sino alla “Providentia Romani Pontificis” del 1566, la Bolla pontificia che portava la firma di Pio V. Questo documento sancì un deciso svanire d’ogni sentimento tollerante verso il rito costantinopolitano, da parte delle gerarchie romane e, per rilesso, di quelle locali altamurane. Il definitivo colpo di grazia s’ebbe poi nel 1601, quando Papa Clemente VII ordinò la cessazione d’ogni consuetudine rituale greca.
A dispetto dell’avversione da parte delle autorità ecclesiali cattoliche verso l’alternativa orientale - anche se non sempre così decisa come nelle sue battute finali e, anzi, venata di tanto in tanto da momenti di generosa benevolenza - fin verso quest’ultima data, nella popolazione altamurana, risulta essere stata viva una certa abitudine di promiscuità assolutamente pacifica nella frequentazione dei due riti cristiani. Cioè accadeva che, all’interno della comunità latina, vi fosse chi partecipasse pure al culto officiato da preti ortodossi e che, viceversa, in quella greca, vi fosse chi prendesse parte anche alle celebrazioni cattoliche. Senza contare l’altro fenomeno, quello di sacerdoti latini che passavano al Capitolo greco per potersi sposare, e viceversa, quello di originari greci che prendevano i voti secondo il crisma romano, per poter accedere ai maggiori privilegi a questo connessi.
Oggi, a parte forse alcuni lasciti di fonetica nel vernacolo ed altre tracce, incontestabili, rappresentate da cognomi del luogo che lasciano trasparire una comune discendenza da remoti ceppi ellenici, di sicuro v’è pure che, nella psicologia del popolo altamurano, siano naturalmente ravvisabili aspetti di quello greco, segnali d’un istinto che è proprio particolarmente di talune latitudini mediterranee, come sono confluiti lati d’indole di genti provenute da più lontane aree geografiche e che, per varie ragioni ed in periodi differenti, giunsero quivi a stabilirsi. Rispetto a queste altre, tuttavia, soprattutto se si considerano quelle giunte da altre lande d’Europa, per effetto delle dominazioni che seguirono quella sveva, la greca ha dalla sua la specificità d’un popolo che ha segnato passaggi fondamentali nella storia del progresso umano e, accanto a questa, nel caso specifico di Altamura, la densità d’una etnìa che non può essere considerata, malgrado numericamente lo sia stata, una minoranza nel contesto urbano, ma piuttosto, se può esser passata l’espressione, quasi una dolce metà che ha svolto un ruolo importante nella crescita della città, nel senso fisico al pari di quello della sua coscienza spirituale e identitaria.
Chissà, poi, verrebbe anche da domandarsi, in che senso gioverebbe d’apprendere, per filo e per segno, luogo preciso, data di nascita e di morte di tutti i propri avi, considerato che risulta scontato e nell’ordine naturale dell’umana esistenza, il fatto che si nasca e si muoia da qualche parte, mentre nel frattempo si procrei. Di certo, però, v’è che un’utilità si ravviserebbe pure e sia pure di carattere squisitamente culturale, qualora possa giungersi ad aver contezza perlomeno dell’effettiva nazione di cui i propri antenati ebbero il sangue in un dato momento storico, nonchè delle concrete motivazioni che spinsero costoro ad impiantar casa nell’urbe che, oggi, da inconsapevoli discendenti, si dà fieramente per patria da sempre.
Poiché si sfida il buio pesto d’un passato che scivola in secoli e secoli dietro, gettar luce sul terreno di questo speciale tema, riuscirebbe probabilmente impresa titanica e subito rinunciabile, ma forse non così tanto se si provasse solo a lampeggiar lungo appena uno dei suoi solchi.
Al momento della rifondazione della città per volere di Federico II di Svevia, tra le popolazioni migrate da località più o meno vicine, attirate dai privilegi fiscali stabiliti nell’editto di costituzione dell’illuminato monarca, v’erano già, secondo fonti d’epoca remota, porzioni di stirpe greca, considerate in qualche modo “autoctone”. A queste s’aggiunsero poi, gradualmente, nuclei familiari originari del Salento.
Si trattava di quelle genti che, dalla Grecia, avevano raggiunto la penisola salentina durante l’Alto Medioevo, per un fenomeno d’immigrazione di varia circostanza. Da una parte, quella dovuta alla risalente dominazione bizantina che, dopo la guerra greco-gotica, perdurò sino al cambio di guardia da parte dei Normanni. Dall’altra e soprattutto, quella verificatasi a seguito delle campagne militari dell’imperatore Basilio I il Macedone contro le pretese arabe in Puglia e, successivamente, per effetto dell’arrivo di ulteriori gruppi, però stavolta dalla Sicilia e dalla Calabria, composte di fuochi di lingua greca spinti a trovar rifugio nell’area a meridione del Tacco, sotto la pressione dei Saraceni d’Africa.
Si conosce per assodato, ad esempio, che Gallipoli venisse rinvigorita da coloni provenienti da Eraclea Pontica e proprio per volere di Basilio, o che alcune migliaia d’abitanti del Peloponneso fossero trapiantati in Puglia su ordine di Leone VI il Saggio, che la tradizione indica figlio dello stesso Basilio.
Di questa particolare provenienza dall’estremità meridionale pugliese, dunque, tra i gruppi che si stanziarono dentro la sorgente Altamura sveva, e proprio questi a porre energia nella costruzione di tre chiese: San Nicola, Santa Maria Maggiore e San Giovanni Battista. Tre immobili che saranno dedicati al culto cristiano ma, perlomeno nelle intenzioni a fondamento, al di fuori della giurisdizione ecclesiastica che faceva capo al Pontefice romano. Già, perché coloro che li erigono, sono sì cristiani, ma di professione ortodossa. Per essi, la massima autorità spirituale non risiede a Roma, bensì a Costantinopoli, incarnata dalla figura del suo Patriarca e com’era, in maniera ufficiale e definitiva, sin dal 1054, anno del cosiddetto Scisma d’Oriente.
Ora, non deve meravigliare che una delle prime premure dei Greci, che andavano insediandosi nella rinascente Altamura, fosse d’erigere pievi laddove avrebbero risieduto.
Dei popoli che, in un certo trapassato, conquistarono la razionalità e inventarono la filosofia nelle propaggini meridionali della penisola balcanica, d’altronde gli stessi ai quali si deve la fondazione della Magna Grecia lungo buona parte delle coste meridionali della penisola italica e di quella che, anticamente, fioriva nota col nome di Trinacria, difatti è ben nota la profonda ed innata spiritualità, testimoniata dall’edificazione di templi dedicati ad una nutrita schiera di divinità.
Una spiritualità, nella sostanza quasi d’una componente genetica insradicabile, conservatasi naturalmente intatta anche dopo la conversione al Cristianesimo, avvenuta peraltro grazie anche ad uno storico protagonista della fede del calibro di Paolo di Tarso.
Tra le chiese di matrice greco-ortodossa che videro luce ad Altamura, di certo quella dedicata a San Nicola è la più nota, anche per via della sua immediata riconoscibilità visiva, essendo posizionata lungo il Corso cittadino e, peraltro, a poca distanza dalla Cattedrale di rito latino, dedicata all’Assunta.
In effetti, oltre a rappresentare uno storico monumento sacro e un luogo deputato a funzioni religiose, ancor in essere e, però, secondo il costume cattolico, parrebbe addirittura, almeno agli occhi di chi ne conosca la genesi, un presidio di quello che, più o meno propriamente, avrebbe potuto passare per il quartiere greco dell’Altamura medievale.
Se s’esclude l’edificio di San Giovanni Battista, oggi non più esistente, ma un tempo collocato nell’attuale piazzetta dedicata al Precursore, e guardando alla dislocazione dei due restanti emerge, infatti, quello che, a tutta vista, potrebbe andare ipotizzato come lo spazio maggiormente abitato dai nuovi immigrati dell’epoca. Congiungendo, anzi, il cardine geografico di San Nicola all’altro, sempre all’interno della cinta muraria, ma proprio sotto il suo limitare, vale a dire Santa Maria Maggiore, affacciata sull’attuale via La Maggiore, sembrerebbe pronunciarsi un’idea addirittura probabile dello sviluppo dell’insediamento greco all’interno della città d’allora, con un’espansione urbanistica immersa nella parte più digradante del fronte scosceso sul quale, un tempo, sorgeva l’acropoli peuceta. Conforterebbe in questa direzione, il dato storico certo della concentrazione almeno delle abitazioni delle famiglie dei presbiteri greci, nelle immediate prossimità della struttura dedicata al Vescovo di Myra.
In tutte e tre le chiese, tuttavia, il culto nella formula ortodossa vi venne esercitato o, sarebbe meglio dire, vi venne permesso, sino alla “Providentia Romani Pontificis” del 1566, la Bolla pontificia che portava la firma di Pio V. Questo documento sancì un deciso svanire d’ogni sentimento tollerante verso il rito costantinopolitano, da parte delle gerarchie romane e, per rilesso, di quelle locali altamurane. Il definitivo colpo di grazia s’ebbe poi nel 1601, quando Papa Clemente VII ordinò la cessazione d’ogni consuetudine rituale greca.
A dispetto dell’avversione da parte delle autorità ecclesiali cattoliche verso l’alternativa orientale - anche se non sempre così decisa come nelle sue battute finali e, anzi, venata di tanto in tanto da momenti di generosa benevolenza - fin verso quest’ultima data, nella popolazione altamurana, risulta essere stata viva una certa abitudine di promiscuità assolutamente pacifica nella frequentazione dei due riti cristiani. Cioè accadeva che, all’interno della comunità latina, vi fosse chi partecipasse pure al culto officiato da preti ortodossi e che, viceversa, in quella greca, vi fosse chi prendesse parte anche alle celebrazioni cattoliche. Senza contare l’altro fenomeno, quello di sacerdoti latini che passavano al Capitolo greco per potersi sposare, e viceversa, quello di originari greci che prendevano i voti secondo il crisma romano, per poter accedere ai maggiori privilegi a questo connessi.
Oggi, a parte forse alcuni lasciti di fonetica nel vernacolo ed altre tracce, incontestabili, rappresentate da cognomi del luogo che lasciano trasparire una comune discendenza da remoti ceppi ellenici, di sicuro v’è pure che, nella psicologia del popolo altamurano, siano naturalmente ravvisabili aspetti di quello greco, segnali d’un istinto che è proprio particolarmente di talune latitudini mediterranee, come sono confluiti lati d’indole di genti provenute da più lontane aree geografiche e che, per varie ragioni ed in periodi differenti, giunsero quivi a stabilirsi. Rispetto a queste altre, tuttavia, soprattutto se si considerano quelle giunte da altre lande d’Europa, per effetto delle dominazioni che seguirono quella sveva, la greca ha dalla sua la specificità d’un popolo che ha segnato passaggi fondamentali nella storia del progresso umano e, accanto a questa, nel caso specifico di Altamura, la densità d’una etnìa che non può essere considerata, malgrado numericamente lo sia stata, una minoranza nel contesto urbano, ma piuttosto, se può esser passata l’espressione, quasi una dolce metà che ha svolto un ruolo importante nella crescita della città, nel senso fisico al pari di quello della sua coscienza spirituale e identitaria.
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Cultura e Spettacoli