Storie, storielle, leggende e curiosità di Natale
di VITTORIO POLITO - Vito Maurogiovanni nel libro “Antico Natale” (Edipuglia), racconta che la notte del 24 dicembre un bambino fu rapito da briganti e non avendo ottenuto il riscatto dalla famiglia lo dovevano uccidere. Mentre stavano per compiere l’orrendo misfatto, una luce vivissima apparve nel cielo ed accecò gli assassini. Il bambino si salvò e vide un altro bel Bambino che teneva la corona in capo, la croce in mano ed il mondo nell’altra. Era Gesù.
Un’altra leggenda di Maurogiovanni “Gesù e l’usignolo”, ricorda la Madonna che tentava di addormentare il dolce Figliuolo che invece continuava a frignare come tutti i bambini del mondo. Quasi disperata pregò il Signore di consolare il divino Infante che non aveva pace e che la metteva al limite della cosiddetta santa pazienza. Fu in quel momento che entrò nella grotta un usignolo il quale si mise a cantare con tanta soavità e con tale trasporto che il Messia se ne andò in estasi e cadde in un sonno profondo e per non disturbarlo l’usignolo non trillò più e uscì dalla capanna per annunciare a tutti gli animali del mondo di tacere a lungo per non interrompere il sonno del santo Fanciullo sceso sulla terra.
Questi racconti ci portano al grande evento della Natività, festa della cristianità e delle tradizioni popolari, che vengono da lontano.
Qual è l’origine della natività? Pare nata nell’ottica di una importante festa pagana, la celebrazione del ‘Sol invictus’, dio del Sole e signore dei pianeti. Il Messia veniva spesso descritto come ‘Sole di giustizia’ e lo stesso Vangelo ne parla, a volte, paragonandolo al Sole. Ecco la preferenza per il 25 dicembre, data, anche se probabilmente non esatta, scelta per la necessità di contrapporre una festa cristiana ad una pagana nel momento in cui si diffondeva una nuova religione, il Cristianesimo.
In Palestina ed a Gerusalemme, invece, fino al V secolo era comunque l’Epifania ad essere festeggiata in memoria della nascita di Cristo. Storici famosi come Clemente Alessandrino propendevano per il 6 o il 10 gennaio, altri addirittura per il 25 marzo. Nell’antica Roma, dal 17 al 24 dicembre, si festeggiavano i Saturnali in onore di Saturno, dio dell’agricoltura, un periodo in cui si viveva in pace, si scambiavano doni, venivano abbandonate le divisioni sociali e si facevano sontuosi banchetti.
Nel 274 d.C. l’Imperatore Aureliano decise che il 25 dicembre si festeggiasse il Sole, da cui nasce la tradizione del ceppo natalizio, ceppo che nelle case doveva bruciare per 12 giorni consecutivi e doveva essere preferibilmente di quercia, un legno propiziatorio. Il ceppo natalizio nei nostri giorni si è trasformato nelle luci e nelle candele che oggi addobbano case, alberi, e strade. Ai giorni nostri il Natale deriva da tradizioni borghesi del secolo scorso, con simboli e usanze sia di origine pagana che cristiana. Negli anni recenti, il Natale, festa prettamente cristiana, è diventata occasione per una corsa al consumismo, un festeggiamento frenetico, sostituendosi da un clima di celebrazione e di riflessione, a una gara commerciale, facendo intervenire spesso la Chiesa a promuovere con incisione il significato religioso.
L’Epifania, una delle principali feste cristiane, la cui celebrazione ricorre il 6 gennaio, nata in oriente per commemorare il battesimo di Gesù, fu presto introdotta in occidente dove assunse contenuti religiosi diversi, come la celebrazione delle nozze di Cana e il ricordo dell’offerta dei doni dei Magi nella grotta di Betlemme. Quest’ultimo aspetto sovrapponendosi a precedenti tradizioni folcloriche, ha determinato la nascita della figura della Befana che distribuisce doni.
I Magi, che non erano maghi, ma astronomi e sacerdoti, guidati da una stella, arrivarono dall’Oriente per rendere omaggio a Gesù appena nato a Betlemme, donandogli oro, incenso e mirra. Successivamente vengono indicati come “re” e il loro numero viene fissato a tre, con i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Questa festa, che dà un supplemento di regali ai bambini, pone termine al ciclo di festeggiamenti dedicato al Santo Natale.
Natale, notte d’amore e di speranza, una delle ricorrenze più importanti dell’anno, riporta alla nostra mente il gran numero di persone che vivono in povertà e solitudine. Per loro non esistono feste, tradizioni, scambio di doni, luci, ma solo miseria. Eppure c’è qualcuno che si accontenta del lumicino della candela per accendere tutte le luci del Natale.
Una decina di anni fa mi capitò di ascoltare, per la prima volta, durante la Santa Messa di Natale, la declamazione da parte del celebrante, di una poesia, non in italiano o latino, ma in dialetto barese. Una testimonianza che il dialetto, la lingua dei nostri padri, si rivela utile anche per trasmettere messaggi d’amore e di speranza. E, a proposito di dialetto, mi piace ricordare quanto scrive Anna Maria Tripputi, già docente di Storia delle Tradizioni popolari presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Bari, nella presentazione del libro “Natale a Bari”, di Celeste e Vito Maurogiovanni (Paolo Malagrinò Editore), citando Mario Sansone (1900-1966), docente di letteratura: “Il dialetto è la lingua che i Romani avrebbero parlato se fossero sopravvissuti fino ad oggi. E non è un caso che alcuni dialetti, come il sardo, siano annoverati tra le lingue nazionali. Come non è un caso che nei momenti cruciali della vita, nel dolore, nella rabbia o nella paura affiorino improvvisamente nell’ancestrale memoria le parole del dialetto lingua-madre”.
A seguire la poesia di autore sconosciuto, di cui sopra, che voleva essere un messaggio di augurio della Commissione Cultura e Comunicazione del Santuario di Sant’Antonio di Bari, per confermare che basta un po’ d’amore e il lume di una candela per accendere tutte le luci di Natale!
Un’altra leggenda di Maurogiovanni “Gesù e l’usignolo”, ricorda la Madonna che tentava di addormentare il dolce Figliuolo che invece continuava a frignare come tutti i bambini del mondo. Quasi disperata pregò il Signore di consolare il divino Infante che non aveva pace e che la metteva al limite della cosiddetta santa pazienza. Fu in quel momento che entrò nella grotta un usignolo il quale si mise a cantare con tanta soavità e con tale trasporto che il Messia se ne andò in estasi e cadde in un sonno profondo e per non disturbarlo l’usignolo non trillò più e uscì dalla capanna per annunciare a tutti gli animali del mondo di tacere a lungo per non interrompere il sonno del santo Fanciullo sceso sulla terra.
Questi racconti ci portano al grande evento della Natività, festa della cristianità e delle tradizioni popolari, che vengono da lontano.
Qual è l’origine della natività? Pare nata nell’ottica di una importante festa pagana, la celebrazione del ‘Sol invictus’, dio del Sole e signore dei pianeti. Il Messia veniva spesso descritto come ‘Sole di giustizia’ e lo stesso Vangelo ne parla, a volte, paragonandolo al Sole. Ecco la preferenza per il 25 dicembre, data, anche se probabilmente non esatta, scelta per la necessità di contrapporre una festa cristiana ad una pagana nel momento in cui si diffondeva una nuova religione, il Cristianesimo.
In Palestina ed a Gerusalemme, invece, fino al V secolo era comunque l’Epifania ad essere festeggiata in memoria della nascita di Cristo. Storici famosi come Clemente Alessandrino propendevano per il 6 o il 10 gennaio, altri addirittura per il 25 marzo. Nell’antica Roma, dal 17 al 24 dicembre, si festeggiavano i Saturnali in onore di Saturno, dio dell’agricoltura, un periodo in cui si viveva in pace, si scambiavano doni, venivano abbandonate le divisioni sociali e si facevano sontuosi banchetti.
Nel 274 d.C. l’Imperatore Aureliano decise che il 25 dicembre si festeggiasse il Sole, da cui nasce la tradizione del ceppo natalizio, ceppo che nelle case doveva bruciare per 12 giorni consecutivi e doveva essere preferibilmente di quercia, un legno propiziatorio. Il ceppo natalizio nei nostri giorni si è trasformato nelle luci e nelle candele che oggi addobbano case, alberi, e strade. Ai giorni nostri il Natale deriva da tradizioni borghesi del secolo scorso, con simboli e usanze sia di origine pagana che cristiana. Negli anni recenti, il Natale, festa prettamente cristiana, è diventata occasione per una corsa al consumismo, un festeggiamento frenetico, sostituendosi da un clima di celebrazione e di riflessione, a una gara commerciale, facendo intervenire spesso la Chiesa a promuovere con incisione il significato religioso.
L’Epifania, una delle principali feste cristiane, la cui celebrazione ricorre il 6 gennaio, nata in oriente per commemorare il battesimo di Gesù, fu presto introdotta in occidente dove assunse contenuti religiosi diversi, come la celebrazione delle nozze di Cana e il ricordo dell’offerta dei doni dei Magi nella grotta di Betlemme. Quest’ultimo aspetto sovrapponendosi a precedenti tradizioni folcloriche, ha determinato la nascita della figura della Befana che distribuisce doni.
I Magi, che non erano maghi, ma astronomi e sacerdoti, guidati da una stella, arrivarono dall’Oriente per rendere omaggio a Gesù appena nato a Betlemme, donandogli oro, incenso e mirra. Successivamente vengono indicati come “re” e il loro numero viene fissato a tre, con i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Questa festa, che dà un supplemento di regali ai bambini, pone termine al ciclo di festeggiamenti dedicato al Santo Natale.
Natale, notte d’amore e di speranza, una delle ricorrenze più importanti dell’anno, riporta alla nostra mente il gran numero di persone che vivono in povertà e solitudine. Per loro non esistono feste, tradizioni, scambio di doni, luci, ma solo miseria. Eppure c’è qualcuno che si accontenta del lumicino della candela per accendere tutte le luci del Natale.
Una decina di anni fa mi capitò di ascoltare, per la prima volta, durante la Santa Messa di Natale, la declamazione da parte del celebrante, di una poesia, non in italiano o latino, ma in dialetto barese. Una testimonianza che il dialetto, la lingua dei nostri padri, si rivela utile anche per trasmettere messaggi d’amore e di speranza. E, a proposito di dialetto, mi piace ricordare quanto scrive Anna Maria Tripputi, già docente di Storia delle Tradizioni popolari presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Bari, nella presentazione del libro “Natale a Bari”, di Celeste e Vito Maurogiovanni (Paolo Malagrinò Editore), citando Mario Sansone (1900-1966), docente di letteratura: “Il dialetto è la lingua che i Romani avrebbero parlato se fossero sopravvissuti fino ad oggi. E non è un caso che alcuni dialetti, come il sardo, siano annoverati tra le lingue nazionali. Come non è un caso che nei momenti cruciali della vita, nel dolore, nella rabbia o nella paura affiorino improvvisamente nell’ancestrale memoria le parole del dialetto lingua-madre”.
A seguire la poesia di autore sconosciuto, di cui sopra, che voleva essere un messaggio di augurio della Commissione Cultura e Comunicazione del Santuario di Sant’Antonio di Bari, per confermare che basta un po’ d’amore e il lume di una candela per accendere tutte le luci di Natale!
NATALE
Jind’a chessa vescigghie
chiène de lusce inudele, capetone
augurie e tanda iose
ji me ne sò sciute
jind’a na chièssie, sò state citte citte
sò acchiedute l’ecchie e sò sendute
la vosce du Natale:
«Uaggnune – me dèceve – addò sciate?
non avìte angore accapesciute c’avaste
nu picche d’amore, picche quand’a la lusce
de na cannèle, p’appeccià tutte le
lusce de stasère?»
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I versi sono stati rivisti dallo scrivente, per dare una forma più conveniente sotto il profilo della scrittura del dialetto.
Jind’a chessa vescigghie
chiène de lusce inudele, capetone
augurie e tanda iose
ji me ne sò sciute
jind’a na chièssie, sò state citte citte
sò acchiedute l’ecchie e sò sendute
la vosce du Natale:
«Uaggnune – me dèceve – addò sciate?
non avìte angore accapesciute c’avaste
nu picche d’amore, picche quand’a la lusce
de na cannèle, p’appeccià tutte le
lusce de stasère?»
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I versi sono stati rivisti dallo scrivente, per dare una forma più conveniente sotto il profilo della scrittura del dialetto.
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Cultura e Spettacoli