"Cibum Nostrum"

di FRANCESCO GRECO - "Oggi viviamo una postmodernità che da tempo ci ha alienato dalla terra e dai suoi cicli produttivi". L'incipit è bello tosto e non tradisce le premesse. Alzi la mano chi dal panettiere non ha mai chiesto il grano saraceno, o kamut, o Cappelli, giusto per cantare nel coro oggi che da produttori siamo diventati consumatori e sogniamo un orto verticale o un giardino euponico.
 
Ingozzati di "porn food", storditi dai guru che cucinano in tv da mane a sera, ascoltati come l'oracolo del dio Apollo a Delfi, tentati dal vegano, dal macrobiotico, dal biologico, dal gluten free, dall'insulsa cucina molecolare, da tutte le mode che ci vorticano intorno, non sappiamo più chi siamo né cosa mangiare. Insomma, siamo quel che mangiamo, confusi, smarriti, perduti nei labirinti del trend, e più cerchiamo una via personale, più siamo omologati.

E siccome "guardare dentro all'alimentazione mediterranea, e a quel che ne rimane, significa anche trovare qualcosa di quel che siamo stati, qualcosa di quel che forse ancora siamo", a chiarirci le idee giunge opportuno il bel saggio di Maurizio Sentieri, "Cibum nostrum" (Mito e rovina della dieta mediterranea), DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 130, euro 13,00 (collana "habitus"). Una dotta e articolata speculazione storica, antropologica, filosofica, sociologica, ecc. sul cibo e sulla dieta mediterranea che mentre diventava, dichiarata dall'Unesco nel 2010, "patrimonio immateriale dell'umanità", diventava altro da sè, trasfigurandosi in qualcosa in continuo itinere, contaminata, semanticamente affollata. Tanto da farci chiedere: di cosa parliamo quando quando riflettiamo sulla dieta mediterranea (la locuzione si deve a un americano, Ancel Keys, negli anni Cinquanta la studiò nel Sud Italia e po ne scrisse )?

Non la stiamo banalizzando troppo, riempiendola di luoghi comuni? "Ma c'è sempre qualcosa di inaspettato nel cibo: collante indispensabile alla vita in quanto tale...".

Come al gioco dell'oca, forse bisogna tornare alla prima casella. Smettere l'abito di supponenza che il fatto di smanettare in rete ci ha cucito addosso, montando un'analfabetismo di massa, che include anche il cibo. Oggi tutti sono esperti di cucina e di vini, ma se ci versano un rosato da centro commerciale, capace che lo scambiamo per un vino d'annata.

Relativizzato il tempo, ci dice fra l'altro Sentieri (esperto di storia e antropologia dell'alimentazione, vive fra Liguria di Ponente e Appennini), non facciamo altro che mangiare da mane a sera, come polli d'allevamento, "ormai lontana anni luce la fame vera, il cibo è elemento accessorio del vivere".

E mentre fino a ieri mangiare (civiltà contadina) era un rito condiviso, gratificante, oggi è mutato in qualcosa di diverso, forse di incodificabile, tant'è che abbiamo sempre fame e non siamo mai sazi.

E meno male che, a partire dal Cinquecento, e quindi da poco, ai cereali dell'uomo preistorico, si sono aggiunte altre coltivazioni (mais, pomodori, fagioli, zucche, peperoni, patate, ecc.).     

Sino a ieri accoppiata all'idea della salute e del benessere, antidoto alle malattie d'oggi (ictus, infarto, ecc.), sfrondata dal ciarpame fra l'ideologico e il marketing di cui l'hanno ammantata, la dieta mediterranea è tante altre cose ancora. Sentieri rilegge la sua storia e ci guida nei meandri di quel che sta diventando e che sarà.
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