Cinema Cult: ''Roma città aperta''

di VALTER CANNELLONI - Scriveva Rossellini nel 1956: "Abbiamo cominciato il nostro film due mesi soltanto dopo la liberazione di Roma, nonostante la povertà di pellicola. Abbiamo girato negli ambienti naturali in cui s'erano svolti i fatti da noi ricostruiti. Per poter dare inizio al mio lavoro ho dovuto vendere il mio letto, un cassettone, un armadio. Il film fu in origine muto, non per gusto, ma per necessità. La pellicola costava 60 lire al metro al mercato nero e, se avessimo dovuto registrare anche i suoni, avremmo dovuto spendere per ogni scena un certo numero di lire supplementari. Senza contare che le Autorità alleate avevano soltanto dato il permesso per girare un documentario. Quando il film fu montato e finito, gli attori doppiarono se stessi".

Ispirato alle tragedie e alle imprese della Resistenza romana, l'opera ebbe come modello anche il martirio di Don Morosini, prete cattolico fucilato dai nazifascisti nel 1944 a Forte Boccea. La trama è semplice e lineare: Giorgio Manfredi, militante comunista e membro della Giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale, è pedinato dalla Gestapo. Trova rifugio nell'appartamento al Prenestino del suo compagmo tipografo Francesco, che il giorno dopo deve sposarsi con Pina, vedova con il figlioletto Marcello a carico.

Per mantenere i contatti con il Comitato di Liberazione, Manfredi si affida a Don Pietro, prete anticomunista ma sensibile alla causa dell'antifascismo e degli oppressi, cui si dedica con dedizione e passione (“Ammazza che padellata!” gli grida il chierichetto Marcello quando “abbatte” un vecchietto con l'utensile, visto che si rifiutava di “svenire” volontariamente all'arrivo delle SS).

La Gestapo però intercetta il nascondiglio dei partigiani e, nella retata che segue, Pina, la compagna di Francesco, che tra l'altro è anche incinta, per protestare contro l'arresto del suo uomo, viene falciata da una sventagliata di mitra nazista. Manfredi e Francesco, sfuggiti al famigerato carcere di via Tasso grazie a un'incursione dei partigiani, trovano allora rifugio nella casa ai Parioli di Marina, attricetta imbottita di oppiacei, collusa con gli oppressori, che ha avuto una storia con Giorgio Manfredi.

Dopo un violento alterco tra i due, Marina denuncia Giorgio, Francesco e Don Pietro alla sua amica Ingrid, agente della Gestapo (che avverte il crudele comandante Berggmann) in cambio di una dose di droga e una pelliccia. Francesco scampa all'arresto ma Manfredi e Don Pietro vengono trasportati nel lager di via Tasso: la Gestapo tortura Manfredi per fargli rivelare i nomi dei componenti del Comitato di Liberazione, ma l'uomo preferisce morire piuttosto che tradire i suoi compagni.

Don Pietro è inviato alla fucilazione, che si svolgerà il mattino seguente: a raccogliere la fiaccola della libertà saranno i suoi ragazzini dell'oratorio, che hanno assistito all'esecuzione e che si allontanano pronti a continuare la lotta. Sceneggiata, insieme a Rossellini e Sergio Amidei, da un giovanissimo Federico Fellini, l'opera, che portava per la prima volta sul grande schermo la gente della strada, le donne che assaltavano i forni per procurarsi del pane, i bambini, che diventano così i veri protagonisti della storia, si avvalse dell'eccezionale interpretazione di Anna Magnani, grande attrice tragica.

La corsa della sua Pina verso il camion che si allontana con a bordo il suo Francesco arrestato, e la successiva sventagliata di mitra che la lascia a terra morta, con il suo reggicalze in primo piano, resterà per sempre nella storia del cinema e del costume italiano. La magniloquente e magnifica scena finale, con il martirio di Don Pietro e la successiva luce di speranza offerta dai suoi ragazzi, costituisce un'eguale pagina sublime di cinema.

Roma, oltraggiata da nove, lunghi mesi di occupazione nazi-fascista, con il suo status ufficiale di “città aperta”, fu raccontata così in tutto il suo dramma. Il film ebbe un peso specifico enorme. L'Italia, uscita dall'incubo del ventennio fascista, si riaffacciava sul palcoscenico mondiale, e l'opera di Rossellini valse più di cento discorsi dei Ministri degli Esteri dell'epoca per far accettare, visto che anche i patrioti italiani avevano combattuto contro la barbarie per la libertà del mondo, l'Italia nel nuovo consesso dei popoli liberi.

Con questa pellicola, inoltre, veniva inaugurata ufficialmente l'era del Neorealismo, che avrebbe influenzato centinaia di registi in tutto il mondo. Il cinema usciva dai teatri di posa e, un po' per necessità e molto per scelta, si confrontava con la realtà del dopoguerra.

Il regista fu sempre consapevole di questo suo modo rivoluzionario di porsi dietro la macchina da presa, e nel 1976 scriveva polemicamente: “Roma città aperta fu un film sull'ovvio. L'ovvio di quel momento là, naturalmente. Cosa c'era infatti nel film? Il coraggio, la paura, la rivolta, il partigiano, il borsaro nero, persino un bambino sul pitale. Me l'hanno rimproverato tante volte, ma quel bambino su quel pitale non stava lì per il gusto della sensazione, ma proprio per trasmettere il senso dell'ovvio, per portare l'essere umano il più vicino alla realtà. Solo così, dopo, vedi l'eroismo, l'eroe, anche nei momenti più dimessi, lontano dal piedistallo, e dopo, quando risale sul piedistallo, ci credi di più”.


REGIA: ROBERTO ROSSELLINI

SCENEGGIATURA: ROBERTO ROSSELLINI, FEDERICO FELLINI, SERGIO AMIDEI

FOTOGRAFIA: UBALDO ARATA

MUSICA: RENZO ROSSELLINI

INTERPRETI: ALDO FABRIZI, ANNA MAGNANI, MARCELLO PAGLIERO, MARIA MICHI, FRANCESCO GRANDJACQUET, HARRY FEIST, VITO ANNICHIARICO.

PRODUZIONE: ITALIA, 1945.
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