di FRANCESCO GRECO - “Ogni morte di uomo mi diminuisce…”. Ernest Hemingway mette questo distico a “Per chi suona la campana”. Non è annoverato fra i reazionari del Novecento, anzi (era amico di Fidel Castro, viveva a Cuba, la Cia lo spiava), già a 19 anni combatteva sul fronte italiano, per i valori con la “v” maiuscola.
Egli non specifica se allude all’uomo di destra o sinistra, perché l’uomo è uno solo, sono le nostre visioni polisemiche a vederne infiniti.
Non lo dice forse in nome di un universalismo e un umanesimo che dovrebbe ispirarci nonostante la Storia e i suoi inevitabili condizionamenti culturali e ideologici.
Funzionava così nell’altro secolo, quando era prassi l’ortodossia ideologica, non oggi che è stata relativizzata. Ed è un bene, fuori dalle gabbie siamo più liberi.
Parafrasando Papa Francesco, chi siamo noi per giudicare Giacinto Carmine Antonio Bello? Era il fratello maggiore di don Tonino Bello, che dal 1944 riposava nel cimitero militare di Milano, l’angolo dei caduti della Repubblica Sociale, gli sconfitti, morti inutilmente.
Per anni, dalla fine della guerra, la famiglia Bello lo aveva cercato, ma agli archivi aveva dato solo il nome di Carmine, non i tre sull’anagrafe. Digitandoli, un giorno è spuntato, mentre dell’altro, Vittorio, affondato con l’incrociatore “Roma”, non s’è saputo più nulla. Tragedie, personali e collettive, dell’altro secolo.
Giacinto C. A. Bello era figlio del primo matrimonio del padre di don Tonino, Tommaso. Era nato nel 1919. Radiotelegrafista della X Mas, poco sappiamo del percorso da militare e umano. Morì d’infarto, a Milano: era il 3 ottobre 1944.
Qualche settimana fa è tornato a casa. Sarebbe stata un’occasione, l’ennesima, per liberarci dalla schiavitù della memoria, dal passato che non passa mai, neanche dopo 75 anni. Per una rappacificazione nazionale, una memoria condivisa, la legittimazione dell’altro se non come “politico” almeno come uomo. I popoli lo fanno, la civiltà, dice Wilhelm Reich, procede sulla rimozione.
Non in Italia, dove quando c’era il fascismo gli anti erano esigui, oggi che non c’è, tutti militano anti, tanto non costa nulla e ci pensano i maestri dell’odio a tener vivo questo sentimento per ragioni non sempre nobili: una palude da cui non si riesce a uscire. Una cosa è essere vigili e non dimenticare, un’altra stare immobili, schiavi.
Giunta ad Alessano, la bara ha sostato brevemente nella Chiesa del SS. Salvatore, vegliata da due marinai accorsi, si presume, a titolo personale (l’ANMI locale è dedicata ai fratelli Bello). Nei giorni precedenti, autorità e istituzioni avevano dato la disponibilità a presenziare a un minimo di cerimonia pubblica.
I Bello erano contenti, ma si erano illusi. Evidentemente c’è stato un difetto di comunicazione: forse ignoravano i suoi snodi esistenziali. Una volta saputi dai media, c’è stata una presa di distanze, una “fuga” sconsiderata dietro le quinte: l’Ammiragliato di Taranto s’è chiamato fuori, il Comune (dove pure hanno la fascia tricolore facile) s’è tenuto distante, la Prefettura si è assentata, la Diocesi di Ugento (nel cui seminario don Tonino fu studente, docente, rettore) s’è resa metafisica “silenziando” la news, come se i media l’avessero taciuta, o forse per paura che un fratello repubblichino avrebbe ostacolato la via del “costruttore di pace” verso gli altari, nel Paese dei trasformisti, dove i curricula si acconciano e si sbanchettano a seconda del vento che tira. Don Tonino non l’avrebbe mai fatto: attribuiva grande importanza alla comunicazione: era grande anche in questo.
Idea stravagante, pittoresca: il fatto, a nostro modesto parere, non aggiunge e non toglie nulla alla “santità” del vescovo di Molfetta, perché “don Tonino è già santo per il suo popolo”, come ebbe a dire Mons. Pietro Parolin l’8 dicembre 2017 a Santa Maria di Leuca. E come se i postulatori della causa - il Cardinal Angelo Amato, Congregazione Beati e Santi, e padre Luigi Michele De Palma - vivessero sulla nuvoletta iperuranica, senza leggere giornali, né guardare tg.
Tra il fratello maggiore e don Tonino c’era uno scambio di corrispondenza, Carmine era affezionato al fratellino (16 anni di differenza), primo di tre: dopo Antonio (1935), Maria Imperato (morta nel 1981) aveva dato al carabiniere Tommaso rimasto vedovo (morto improvvisamente di incidente aereo nel 1942) anche Trifone (oggi ottantenne) e Marcello (mancato alla fine del 2019).
Giacinto C. A. Bello è stato trattato come figlio di un dio minore, un untore pericoloso, un pacco ingombrante, che scotta: ora riposa in una cappella privata, eppure nel cimitero c’è un’area dedicata ai caduti in guerra. Evidentemente quelli politicamente corretti e lui, col suo vissuto tragico e la morte giovane, non lo è.
Una storia priva di “pietas” e molto strapaese, che fa e farà discutere l’opinione pubblica. La domanda, infine, nasce spontanea: cosa avrebbe detto don Tonino, pacifista, antimilitarista, nonviolento, utopista? Che con “l’etica del volto” ha dato dignità all’extracomunitario (“Fratello marocchino”), l’emarginato, il ladro, il tossico, la prostituta, ecc.? Non risulta abbia mai chiesto loro la militanza politica.
Forse avrebbe usato una delle sue splendide metafore, inoltrato com’era sui sentieri di Isaia? E ei prossimi 75 anni, riusciremo a cambiare la nostra forma mentis facendo un passettino verso la “convivialità delle differenze”, sebbene ispide, barocche, impegnative? Ai posteri l’ardua sentenza direbbe il Manzoni, che di peste e di untori ne sapeva più di noi.
Egli non specifica se allude all’uomo di destra o sinistra, perché l’uomo è uno solo, sono le nostre visioni polisemiche a vederne infiniti.
Non lo dice forse in nome di un universalismo e un umanesimo che dovrebbe ispirarci nonostante la Storia e i suoi inevitabili condizionamenti culturali e ideologici.
Funzionava così nell’altro secolo, quando era prassi l’ortodossia ideologica, non oggi che è stata relativizzata. Ed è un bene, fuori dalle gabbie siamo più liberi.
Parafrasando Papa Francesco, chi siamo noi per giudicare Giacinto Carmine Antonio Bello? Era il fratello maggiore di don Tonino Bello, che dal 1944 riposava nel cimitero militare di Milano, l’angolo dei caduti della Repubblica Sociale, gli sconfitti, morti inutilmente.
Per anni, dalla fine della guerra, la famiglia Bello lo aveva cercato, ma agli archivi aveva dato solo il nome di Carmine, non i tre sull’anagrafe. Digitandoli, un giorno è spuntato, mentre dell’altro, Vittorio, affondato con l’incrociatore “Roma”, non s’è saputo più nulla. Tragedie, personali e collettive, dell’altro secolo.
Giacinto C. A. Bello era figlio del primo matrimonio del padre di don Tonino, Tommaso. Era nato nel 1919. Radiotelegrafista della X Mas, poco sappiamo del percorso da militare e umano. Morì d’infarto, a Milano: era il 3 ottobre 1944.
Qualche settimana fa è tornato a casa. Sarebbe stata un’occasione, l’ennesima, per liberarci dalla schiavitù della memoria, dal passato che non passa mai, neanche dopo 75 anni. Per una rappacificazione nazionale, una memoria condivisa, la legittimazione dell’altro se non come “politico” almeno come uomo. I popoli lo fanno, la civiltà, dice Wilhelm Reich, procede sulla rimozione.
Non in Italia, dove quando c’era il fascismo gli anti erano esigui, oggi che non c’è, tutti militano anti, tanto non costa nulla e ci pensano i maestri dell’odio a tener vivo questo sentimento per ragioni non sempre nobili: una palude da cui non si riesce a uscire. Una cosa è essere vigili e non dimenticare, un’altra stare immobili, schiavi.
Giunta ad Alessano, la bara ha sostato brevemente nella Chiesa del SS. Salvatore, vegliata da due marinai accorsi, si presume, a titolo personale (l’ANMI locale è dedicata ai fratelli Bello). Nei giorni precedenti, autorità e istituzioni avevano dato la disponibilità a presenziare a un minimo di cerimonia pubblica.
I Bello erano contenti, ma si erano illusi. Evidentemente c’è stato un difetto di comunicazione: forse ignoravano i suoi snodi esistenziali. Una volta saputi dai media, c’è stata una presa di distanze, una “fuga” sconsiderata dietro le quinte: l’Ammiragliato di Taranto s’è chiamato fuori, il Comune (dove pure hanno la fascia tricolore facile) s’è tenuto distante, la Prefettura si è assentata, la Diocesi di Ugento (nel cui seminario don Tonino fu studente, docente, rettore) s’è resa metafisica “silenziando” la news, come se i media l’avessero taciuta, o forse per paura che un fratello repubblichino avrebbe ostacolato la via del “costruttore di pace” verso gli altari, nel Paese dei trasformisti, dove i curricula si acconciano e si sbanchettano a seconda del vento che tira. Don Tonino non l’avrebbe mai fatto: attribuiva grande importanza alla comunicazione: era grande anche in questo.
Idea stravagante, pittoresca: il fatto, a nostro modesto parere, non aggiunge e non toglie nulla alla “santità” del vescovo di Molfetta, perché “don Tonino è già santo per il suo popolo”, come ebbe a dire Mons. Pietro Parolin l’8 dicembre 2017 a Santa Maria di Leuca. E come se i postulatori della causa - il Cardinal Angelo Amato, Congregazione Beati e Santi, e padre Luigi Michele De Palma - vivessero sulla nuvoletta iperuranica, senza leggere giornali, né guardare tg.
Tra il fratello maggiore e don Tonino c’era uno scambio di corrispondenza, Carmine era affezionato al fratellino (16 anni di differenza), primo di tre: dopo Antonio (1935), Maria Imperato (morta nel 1981) aveva dato al carabiniere Tommaso rimasto vedovo (morto improvvisamente di incidente aereo nel 1942) anche Trifone (oggi ottantenne) e Marcello (mancato alla fine del 2019).
Giacinto C. A. Bello è stato trattato come figlio di un dio minore, un untore pericoloso, un pacco ingombrante, che scotta: ora riposa in una cappella privata, eppure nel cimitero c’è un’area dedicata ai caduti in guerra. Evidentemente quelli politicamente corretti e lui, col suo vissuto tragico e la morte giovane, non lo è.
Una storia priva di “pietas” e molto strapaese, che fa e farà discutere l’opinione pubblica. La domanda, infine, nasce spontanea: cosa avrebbe detto don Tonino, pacifista, antimilitarista, nonviolento, utopista? Che con “l’etica del volto” ha dato dignità all’extracomunitario (“Fratello marocchino”), l’emarginato, il ladro, il tossico, la prostituta, ecc.? Non risulta abbia mai chiesto loro la militanza politica.
Forse avrebbe usato una delle sue splendide metafore, inoltrato com’era sui sentieri di Isaia? E ei prossimi 75 anni, riusciremo a cambiare la nostra forma mentis facendo un passettino verso la “convivialità delle differenze”, sebbene ispide, barocche, impegnative? Ai posteri l’ardua sentenza direbbe il Manzoni, che di peste e di untori ne sapeva più di noi.
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