di VITTORIO POLITO – Lazzaro Spallanzani (1729-1799), biologo, naturalista, abate e sacerdote della congregazione della Beata Vergine e San Carlo di Modena, conduceva vita frugale, ottimo camminatore, gradiva cibo e vini prelibati e non disdegnava la compagnia di belle donne, specie se colte e intelligenti.
Nonostante la prestanza fisica, verso i 50 anni cominciò a soffrire di una patologia che i medici definivano “reumatismi” o “artrite gottosa”.
Non essendo in possesso di elementi certi della malattia di Spallanzani, si ritiene che quei dolori lamentati si potevano inquadrare nella patologia definita “artrodinìa” (dolore o reumatismo articolare), che colpiva le piccole articolazioni, deformazioni o comparsa di nodosità con periodiche riacutizzazioni.
I disturbi accusati non distrassero l’abate dai suoi interessi culturali verso la scienze naturali, di cui era appassionato. Si interessò del volo cieco dei pipistrelli, dei meccanismi della digestione da parte del succo gastrico negli animali, la fecondazione artificiale (riuscendo a fecondare “artificialmente” una cagna, in un’epoca in cui non si sapeva molto di ovuli e spermatozoi).
I disturbi si accentuavano col passare degli anni, ma le cure del tempo erano risibili (pensate elioterapia e assunzione per via orale di acqua marina, forse per il contenuto di iodio). Contrasse anche la malaria in occasione di un viaggio a Costantinopoli, disturbi della minzione a causa di una cistite da iperplasia della prostata, accertata dopo la morte.
Il 4 febbraio 1799, a Pavia, si sentì improvvisamente male, mentre attendeva ai suoi esperimenti, nella notte sopraggiunse un ictus cerebrale e la mattina successiva fu trovato in stato di incoscienza e dopo un breve miglioramento entrò in coma e morì nel lasso di pochi giorni.
Ebbe molto prestigio e grandi riconoscimenti internazionali, fu socio di molte accademie e società scientifiche nonché corrispondente e amico di numerosi scienziati del suo tempo.
Oggi il suo nome ricorre frequentemente a causa del “Coronavirus” in relazione all’Istituto romano dove è in cura un notevole numero di contagiati. Attualmente l’Istituto detiene: l’unico laboratorio italiano di livello di biosicurezza e cinque altri laboratori, una banca criogenica che può ospitare fino a 20 contenitori di azoto liquido e 28 contenitori a -80° C. È dotata di un laboratorio per la manipolazione e la preparazione dei campioni da congelare.
L’Istituto si configura attualmente in 4 Dipartimenti (clinico e di ricerca clinica, diagnostico dei servizi e di ricerca clinica, di epidemiologia e di ricerca pre-clinica, interaziendale trapianti), a loro volta articolati in Unità Operative Complesse (U.O.C), Unità Operative Semplici (U.O.S.) ed Unità Operative Semplici Dipartimentali (U.O.S.D.).
Nonostante la prestanza fisica, verso i 50 anni cominciò a soffrire di una patologia che i medici definivano “reumatismi” o “artrite gottosa”.
Non essendo in possesso di elementi certi della malattia di Spallanzani, si ritiene che quei dolori lamentati si potevano inquadrare nella patologia definita “artrodinìa” (dolore o reumatismo articolare), che colpiva le piccole articolazioni, deformazioni o comparsa di nodosità con periodiche riacutizzazioni.
I disturbi accusati non distrassero l’abate dai suoi interessi culturali verso la scienze naturali, di cui era appassionato. Si interessò del volo cieco dei pipistrelli, dei meccanismi della digestione da parte del succo gastrico negli animali, la fecondazione artificiale (riuscendo a fecondare “artificialmente” una cagna, in un’epoca in cui non si sapeva molto di ovuli e spermatozoi).
I disturbi si accentuavano col passare degli anni, ma le cure del tempo erano risibili (pensate elioterapia e assunzione per via orale di acqua marina, forse per il contenuto di iodio). Contrasse anche la malaria in occasione di un viaggio a Costantinopoli, disturbi della minzione a causa di una cistite da iperplasia della prostata, accertata dopo la morte.
Il 4 febbraio 1799, a Pavia, si sentì improvvisamente male, mentre attendeva ai suoi esperimenti, nella notte sopraggiunse un ictus cerebrale e la mattina successiva fu trovato in stato di incoscienza e dopo un breve miglioramento entrò in coma e morì nel lasso di pochi giorni.
Ebbe molto prestigio e grandi riconoscimenti internazionali, fu socio di molte accademie e società scientifiche nonché corrispondente e amico di numerosi scienziati del suo tempo.
Oggi il suo nome ricorre frequentemente a causa del “Coronavirus” in relazione all’Istituto romano dove è in cura un notevole numero di contagiati. Attualmente l’Istituto detiene: l’unico laboratorio italiano di livello di biosicurezza e cinque altri laboratori, una banca criogenica che può ospitare fino a 20 contenitori di azoto liquido e 28 contenitori a -80° C. È dotata di un laboratorio per la manipolazione e la preparazione dei campioni da congelare.
L’Istituto si configura attualmente in 4 Dipartimenti (clinico e di ricerca clinica, diagnostico dei servizi e di ricerca clinica, di epidemiologia e di ricerca pre-clinica, interaziendale trapianti), a loro volta articolati in Unità Operative Complesse (U.O.C), Unità Operative Semplici (U.O.S.) ed Unità Operative Semplici Dipartimentali (U.O.S.D.).