ROBERTO BERLOCO - Altamura. Altamura, la ribelle! Un appellativo che, per onesta sintesi, non potrebbe essere più calzante per una città che, proprio per il coraggio che accompagnò l’indocile e autentico desiderio di libertà del suo popolo, ha finito per meritarsi il soprannome di Leonessa di Puglia.
Altamura, la fiera! Ed ecco qui un altro aggettivo che s’addice al bacio per un paese che, al primato economico conquistato durante l’ultimo cinquantennio, aggiunge d’aver dato i natali al grande compositore Saverio Mercadante, come a diverse altre cime, nel campo delle scienze e delle arti, tutte personalità di cui la comunità altamurana d’oggi va consapevolmente orgogliosa, anche se si tratta d’una concentrazione rimasta confinata, per lo più, a trascorsi temporali remoti.
Dunque, fiera e ribelle! Sfumati da qualità e da difetti, due caratteri precisi dello spirito umano che paiono rispecchiarsi a pieno anche nel pensare quotidiano della popolazione locale odierna.
E se, da una parte, la memoria popolare non manca di serbar vivi i più salienti tra i principali episodi e personaggi del passato, dall’altra non va trascurato quanto di vero ed importante vi sia pure in eventi tragici, che non sembrano godere, però, della ribalta costante di convegni o d’una luce ricorrente nelle bibliografie di respiro.
Tra i passaggi di storia rilevante ai quali, forse, più manca la provvidenza d’una lente da prestare all’occhio comune, ve n’è anzi uno che finirebbe per turbar la fronte di chiunque ne apprenda per la prima volta, tanto è curioso e drammatico insieme. E lo è tanto più, quanto più singolare, per vicissitudini provocate e subite, n’è il protagonista che ne anima il contenuto.
Come per tutte le civite del Mezzogiorno d’Italia, anche l’Altamura rifondata da Federico Ruggero di Hohenstaufen, conobbe il piede delle dominazioni che, periodicamente, s’alternarono nel Basso Medioevo e che si sarebbero susseguite fino all’instaurazione del regime borbonico, quando, cioè, alla Corona di Napoli avrebbe fatto da sostegno un esercito legalmente tratto dai territori che costituivano il reame più a meridione dello Stivale.
Ebbene, fu durante il governo che seguì il signoraggio dello Svevo, vale a dire quello degli Angiò, che proprio da Altamura sembrerebbe emergere il primo dei suoi casi più plateali d’osar troppo finito in tragedia.
Era la prima metà del Trecento quando, da Niccolò Pipino e Giovannella d’Altamura, figlia del Principe Sparano da Bari, nacque Giovanni, primo di quattro fratelli e due sorelle. Non stupisce, così, che sia lui ad ereditare dalla madre il privilegio di Conte d’Altamura, oltre ad una serie d’altre benemerenze nobiliari per via paterna, tra cui quella di Minervino. Anche se, all’aristocratico primogenito, piacerà soprattutto di definirsi Palatino d’Altamura, un titolo che avrà richiamo pure nelle cronache a lui coeve.
Il che, tra l’altro, testimonia indirettamente quanto il centro murgiano, nel corso di appena un secolo dalla data di rifondazione, fosse andato sviluppandosi, assumendo già una certa, considerevole fisionomia geopolitica nel contesto della giurisdizione territoriale dell’epoca.
Ora, che da erede d’una dignità comitale, Giovanni abbia trascorso l’infanzia o anche l’adolescenza e la stessa giovinezza ad Altamura, si può solo supporre, in assenza d’indicazioni precise dalle fonti scritte. Di storicamente certo v’è che, durante il XIV secolo, sia attestata la presenza d’un castello di originaria fattura sveva, nello spazio oggi occupato dall’area di parcheggio di piazza Giacomo Matteotti.
Un luogo, questo del castello, significativo e prestigioso, abbastanza da giustificare che il suo futuro titolare vi facesse meta, trovandovi una saltuaria o stabile residenza. Ecco perché può passar per lecito e possibile, che già un Pipino in erba d’età abbia vissuto tratti della propria esistenza dentro l’Altamura di allora, frequentandone gli spazi e la popolazione ch’era sottomessa al suo blasone.
Così, il piccolo Giovanni potrebbe aver camminato per le vie del borgo, che allora non aveva ancora la densità edilizia con cui si presenta attualmente il centro storico, partecipando magari alle funzioni religiose della chiesa madre dedicata all’Assunta, oppure familiarizzando con i popolani come avrebbe potuto farlo un rampollo patrizio del tempo.
Forse, proprio all’interno del castello, potrebbe aver ricevuto i primi rudimenti di scherma da parte dei militari della guarnigione francese di stanza nel feudo e, forse, proprio quegli esercizi di combattimento possono aver accalorato in lui quella “innata violenza” che gli attribuisce Giovanni Villani, un cronachista fiorentino che narrerà di lui senza sopravvivergli.
Emerge, poi, ancor più credibile che, nel corso degli anni di formazione giovanile, abbia avuto non poca influenza il pensiero delle gesta del nonno, di nome Giovanni anch’egli e promosso agli allori del regime angioino per aver piegato la colonia saracena di Lucera nell’Agosto del 1300, sterminandone una parte e riducendone in schiavitù l’altra. E poco avrebbe importato, agli occhi del Re del momento Carlo II d’Angiò che, proprio per questo scopo, lo aveva incaricato, e ancor più ai suoi, di nipote fiero di portarne il nome e non solo lo stesso sangue, che vi sarebbe infine riuscito assoldando briganti della peggior risma per formare le truppe necessarie all’azione.
In effetti, fu proprio questo tal Giovanni, avo del Pipino Signore di Altamura, a fondare la Casata di famiglia. Lui, originario di Barletta, figlio d’un notaio di nome Niccolò ed egli stesso notaio, ma con le qualità, l’intraprendenza e la buona sorte per scalare il monte degli onori pubblici, al punto da meritarsi, per volontà del monarca in persona, oltre a diverse posizioni elevate, anche la carica di Maestro Razionale della Gran Corte, una funzione equivalente a quella di responsabilità che, oggi, in Italia, viene esercitata sulla Zecca dello Stato dal Ministro delle Finanze. Sempre lui, nominato esecutore testamentario del Protonotario Sparano da Bari, ad organizzare nozze di chiaro interesse tra Giovannella, figlia di questi, col proprio unico figlio maschio Niccolò. Matrimonio che porterà ad accrescere ulteriormente il prestigio della dinastia, ancora di fresca nobiltà, con l’acquisizione di nuovi patrimoni e titoli, tra cui, appunto, quello della baronia altamurana.
E’, dunque, fuor di dubbio che sussistessero abbondanti premesse perché, al Pipino “altamurano”, spettasse una strada di vita particolarmente copiosa di agi e piaceri. E, probabilmente, così sarebbe stato se, in lui, la tentazione dell’ambizione non avesse prevalso sugli inviti della prudenza, l’avidità d’onori e averi sul fondamentale vincolo di lealtà del vassallo.
Complice il terreno di credito agli occhi della Corona angioina, lasciatogli in eredità dal nonno paterno e mantenuto fertile dalla condotta fida del padre, i primi passi commessi da Giovanni Pipino con l’intento di difendere ed accrescere la propria sfera di potere territoriale in ambito pugliese, pur concludendosi in un nulla di fatto o, addirittura, in atti di penale gravità, non ebbero l’impatto di prostrarne l’animo, oppure d’attirarsi subito uno sdegno irreversibile da parte del sovrano.
Anzi, aver già commesso, in avanzata gioventù, per una questione di contesa sopra un possedimento, un primo, clamoroso omicidio, quello di Reginoro della famiglia concorrente dei Del Balzo, con la conseguenza d’un odio giurato da parte di costoro; non esser riuscito, poi, a ridurre in obbedienza la popolazione di San Severo nel 1338, dopo aver ricevuto la Signoria della città per autorità di Sancia d’Aragona; infine, nello stesso anno, non risultar decisivo nel conflitto barlettano tra i Della Marra e i De Gattis, al fianco dei quali ultimi s’era schierato per ragioni strategiche, non solo non fiaccarono la personalità combattiva che da lui affiorava con sempre maggiore vivacità, ma finirono, anzi, per passar in secondo piano di fronte a quello che, di lì a poco, avrebbe potuto distinguersi come l’ultimo e più temerario atto della sua esistenza.
I fatti di Barletta, portati all’orecchio di Roberto d’Angiò, avevano difatti deciso questi a porvi sopra una pietra di pace, chiamando a risponderne Pipino stesso, vale a dire colui che, per i Della Marra che avevano informato il monarca, era considerato il più pericoloso tra coloro che vi si erano insinuati. Ma, all’invito che un messo del Re gli rivolse a raggiungere la corte di Napoli per dar conto del suo operato, il Palatino d’Altamura reagì con alterigia, disobbedendo e asserragliandosi dentro il castello di Minervino.
Nel Gennaio del 1341, un esercito alla cui testa c’era pure Raimondo del Balzo, familiare del primo assassinato dal Pipino, pose assedio alla roccaforte minervinese. Messo alle strette, su persuasione anche della madre, Giovanni si costituì e, poco dopo, mentre il Del Balzo massacrava i suoi soldati impadronendosi del piccolo feudo pugliese, egli venne condannato dal Re Roberto ad ergastolo nelle carceri di Castel Capuano, insieme a Pietro e Luigi, due dei suoi fratelli che gli erano venuti in soccorso coi propri miliziani.
A questo punto, sembrerebbe davvero che la parabola del principe altamurano sia definitivamente eclissata, visto che, d’altronde, neanche la mediazione del letterato Francesco Petrarca, sollecitata dal Cardinal Giovanni Colonna, a sua volta implorato per una clemenza dalla madre Giovannella, sortì un cambio d’animo nel Re. L’arrogante Pipino dovette conoscere l’amarezza delle catene, oltre che la privazione di tutte le proprie ricchezze e d’ogni titolo che portava dalla nascita. Ed è così che se ne restò fino agli inizi del 1343, quando giunse la morte del regnante.
Già, perché con l’ingresso in scena della successora di questi, la nipote Giovanna I, quel che pareva esser stato un destino finito, assunse un opposto, improvviso risvolto. In forza d’una nuova mediazione, stavolta attuata da Papa Clemente VI, sulla neo-regina e anche sul suo consorte Andrea d’Ungheria, la porta d’un riscatto dallo stato di disgrazia nel quale era precipitato, si spalancò infatti per Giovanni Pipino, al quale sorrisero la fine della prigionia e il successivo favore d’una fortuna, sia pur variabile, in altre imprese che avrebbe di lì a poco realizzato.
Tra le prime battute della riacquistata libertà, toccata naturalmente anche ai suoi fratelli, egli prese le parti dei Reali d’Ungheria, d’un ramo d’Angiò anch’essi e col pallino del Regno di Napoli tra i propri diritti, per via d’una autorevole linea di successione dinastica, soprattutto dopo che un loro componente, il Principe Andrea, cugino e marito della regina Giovanna, era stato trucidato nel 1345, forse da sicari della stessa che, a lui, preferiva di gran lunga l’altro cugino e amante Luigi di Taranto.
Dopo un iniziale frangente, durante il quale ebbe ad organizzare il reclutamento di soldati nelle terre dello Stato Pontificio per dar man forte all’esercito con cui Re Luigi d’Ungheria stava discendendo la penisola italiana, per vendicare la morte del fratello Andrea e prendere possesso di quello che considerava un dominio vassallo del Trono magiaro, il Pipino cambiò però idea, ponendo le proprie armi al servizio di Giovanna e del Principe Luigi, che era divenuto, nel frattanto, suo nuovo marito e Re contitolare.
La nuova partigianeria gli valse le Signorie di Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo, Monopoli e della stessa Bari, anche se, in realtà, con l’eccezione della prima, nessuna di queste città volle poi sottometterglisi. Vi fu, tra l’altro, addirittura un momento nel quale arrivò ad autoproclamarsi Re di Puglia.
Seguì una situazione abbastanza confusionaria, in cui l’ardito aristocratico mutò più volte bandiera, adottando talvolta quella del Re d’Ungheria, nel frattempo ormai in forze nell’Italia meridionale, talaltra quella della Regina di Napoli e così via, mentre armate dell’una e dell’altra fazione andavano scontrandosi regolarmente all’interno delle terre contese, non di rado rivalendosi sulle popolazioni delle cittadine di passaggio. Tra i numerosi episodi di questo genere, forse il più doloroso, di cui s’abbia traccia nei resoconti, fu quello del sacco di Grumo per mano di uomini d’arme ungheresi, per lo più mercenari tedeschi appoggiati da frotte di Bitontini di parte. Malgrado i Grumesi avessero issato il vessillo ungherese, arrendendosi subito ai loro aggressori e, con gioia, offrendo loro anche vino delle loro vigne, i militi germanici si diedero a depredarne le abitazioni e a stuprarne le donne.
S’andò avanti fino a che quest’oscillare continuo e frequente da parte del Palatino di Altamura, finì per sfibrare le corde della pazienza di Filippo di Taranto, fratello di quel Principe Luigi consorte della Regina Giovanna. Fu questi a raggiungerlo a Matera, catturandolo nella fortezza di Porta della Bruna nel Dicembre del 1357. Di qui fu condotto ad Altamura, dove venne impiccato ad uno dei merli del castello, dopo esser stato fatto montare sul dorso d’un asino, denudato e con una corona di carta in testa, per deriderlo d’essersi voluto appellare “Re di Puglia”, con tutta probabilità la maggiore tra le ambizioni covate in cuor suo.
Da questo momento in poi, pur affievolendosi col tempo, di questo personaggio rimase una certa memoria nelle cronistorie e nell’immaginario popolare, soprattutto pugliese. Malgrado, forse, a calar la fune dell’analisi storica più in profondità, riuscirebbe faticoso associare naturalmente la sua figura alla Puglia, se si volesse passar questa per patria, più che per mero contesto territoriale d’operatività.
Facendo anche solo il caso del nonno, infatti, l’indole energica e intraprendente, la dote d’un naturale carisma, lo spirito volitivo, ambizioso e calcolatore, la capacità spontanea di produrre strategie d’ampio orizzonte, l’intelligenza razionale e quella particolare inclinazione ordinata dell’intelletto che si prestava all’esercizio di delicate professioni di concetto, come appunto quella di partenza di notaio, unitamente ad una spregiudicata predisposizione alle arti pratiche della guerra, sono tutti elementi che valgono a marcare un’affinità con una certa natura francese, piuttosto che riportare all’appartenenza a genti autoctone o, comunque, di stirpe latina.
E, a confermarlo definitivamente, sembrerebbe concorrere un documento firmato dall’archivista Berardo Candida Gonzaga, che fa risalire il primo Pipino in Italia ad un certo Gualtiero, uno dei capitani francesi di Carlo I d’Angiò, il quale prese dimora per sé e la propria famiglia nella città dell’Aquila, il capoluogo più a settentrione di quello che, già allora, era il regno napoletano.
D’altra parte, tornando all’ultimo e più noto dei Pipino, nel suo passar spesso da un carro a un altro, per trovare maggior certezza nel far il proprio personale giuoco, si ritrova quel certo mal costume italico, detto del salto della quaglia o del cambio di casacca, riconoscibile nella frequenza dei voli da partito a partito, da coalizione a coalizione, per regola praticati, con allegria e senza il pudore più lontano, tra chi dei molti che si sono arrogati alla politica dentro l’Altamura dei recenti decenni.
Un’altra traccia che lascia intendere quanto, in colui che, a tutta somma, convincerebbe più, almeno per sangue, come feudatario d’Oltralpe, vi sia travasato d’un certo uomo del luogo, si riscontra in quel tipico assecondare l’impulso dettato dal primo istinto, oppure in quel sentimento d’invasata e testarda dannazione che ne fondò il prevalente decidere, tanto da portare l’epigrafista Anton Ludovico Antinori, diversi lustri dopo, a dir di lui “sempre ostinato nel male e sempre intento alla propria rovina”.
Cercando un paragone, invece, nell’era contemporanea, per la cinica determinazione e la ferocia nel perseguire intenti che ignoravano largamente la sensata voce della coscienza, la figura di Giovanni Pipino è in certo modo accostabile a quella del criminale di professione Jacques Mesrine, francese di Clichy, che ottenne finanche, durante gli anni ’70 del secolo scorso, d’esser proclamato “pericolo pubblico numero uno” dal Governo di Parigi. In ambedue i casi di storia personale, difatti, ogni impresa è ordita con scaltrezza e attuata con spietata violenza, senz’alcuno spazio per pentimenti o valutazioni morali, non mancando del riflesso d’un successo di breve durata, sino alla piega finale d’una sentenza generale d’ignominia e d’una morte truce.
Oggi, di quello che fu uno dei primi Signori di Altamura, non rimane che un ricordo all’altezza di quelli che furono i drammatici momenti ultimi della sua esistenza. Da secoli esso se ne sta lì, di fianco a Porta Matera, incastonato sopra un antico tratto di mura del centro storico, raccontando d’una gamba, una delle parti strappate dal suo corpo, ormai senza vita dopo l’impiccagione, attraverso il tiro incrociato di quattro cavalli: l’estremo sfregio imposto ad un ribelle che volle rendersi libero dall’autorità costituita, la definitiva, tragica punizione inflitta al coraggio di un’ambizione talmente esuberante, da spingere un uomo a sfidare lo stesso potere regio pur di farsi re. Ma, al tempo medesimo, anche quasi a rappresentare, nel corso della storia civica a seguire, la prima di altre eversive scintille che, malgrado pure ben differenti spinte etiche, come nel caso dei moti rivoluzionari del 1799, non diventeranno mai un fuoco, perché puntualmente spente da una soverchiante, inesorabile forza maggiore, come l’umana storia, d’altronde, fin dalle stesse origini. insegna accadere di norma nei propri conflitti.
(Nell’immagine, la scultura riproducente la Coscia di Pipino, attualmente visibile ad Altamura, nei pressi di Porta Matera, uno degli ingressi per il Centro Storico. Fotografia di Antonio Chiaromonte)
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