Altamura da scoprire. Il mistero del castello di Monte Calvario
ROBERTO BERLOCO - Altamura. Spunta, ergendosi maestoso, tra viale Martiri 1799 e piazza Aldo Moro, con ingresso da via Fiume, alla maniera d’una piacevole sorpresa tra il ripetersi di anonimi stabili d’abitazione, troneggiando in mezzo al traffico di automobili che si sviluppa tutt’attorno.
L’idea, per chi lo guardi la prima volta, è subito quella d’un castello medievale, per giunta perfettamente conservato. Un mistero, il secondo pensiero che posi sul calcolo del numero probabile dei secoli trascorsi da quando v’era uso di questi edifici, poiché non v’è ombra di un danneggiamento e, anzi, neppure d’una significativa usura delle superfici esterne.
Non è poi da escludere che l’animo dell’osservatore finisca per vagolare tra le ipotesi più fantasiose, capaci di spaziare, ad esempio, da quella d’uno speciale e rarissimo materiale resistente adoperato per la fabbricazione, a quella d’una prodigiosa soggezione che, durante epoche trapassate, gli eserciti di passaggio avrebbero potuto provare all’atto d’attentare all’incolumità delle sue pareti.
Ma, di spiegazioni, potrebbero folleggiarne ancora, senza mai scadere a noia, rinvigorite semmai da scoperte di particolari che andrebbero a sommarsi, man mano che l’indagine visiva si faccia più curiosa e attenta.
Qualunque sia il lato considerato, infatti, sembra che l’impronta d’una storia ancor oggi ammirata e tenuta ad onorato studio, sia continuamente palpabile, riconoscibile dalla linea stilistica del romanico pugliese, confermata dall’originale affacciarsi di poggioli, che sembrano quasi voler completare la fastosità d’alcune trifore dalle quali sporgono, e poi, ancora, dall’abbondanza di bifore e di feritoie, con gli spazi esposti protetti da reticoli in ferro e tutte perfettamente incastonate tra file e file di bugne in candida pietra di Trani.
Dalla base che, fino ad un tratto, si sviluppa più ampia rispetto al volume delimitato dalle mura, fino all’orlo della stessa cornice del tetto, tipicamente merlato come secondo certe tradizioni che furono, tutto in questa costruzione sembrerebbe voler echeggiare d’un nobile passato, capace di proliferare gioia di reminiscenze negli occhi degli appassionati, stupore ed esaltazione in quelli dei curiosi di passaggio.
E, come a voler suggellare la sensazione d’un poderoso, incantevole salto nel tempo, un’area cintata attornia quasi l’intera struttura, producendo l’effetto di quel che avrebbe potuto essere un vero e proprio fossato, dove opportuni carichi d’acqua, lasciativi scorrere a momento debito, avrebbero contribuito ad ostacolare ogni eventuale attacco dall’esterno.
Sarebbe tutto così semplice, a questo punto, per credere a quel che s’ammira, qualunque sia l’angolazione scelta, se non fosse per un unico dettaglio, appena una sfumatura che, forse, si fatica a cogliere dopo la piena travolgente di bellezza statuaria scaturita dal contatto della vista.
Proprio in cima al portale d’entrata in robusto legno istoriato, alla maniera stessa degli stemmi di famiglia che i feudatari d’evi trapassati solevano fissare all’ingresso delle proprie dimore, spicca un emblema che la storiografia moderna associa ad un circostanziato periodo del ventesimo secolo, andando ad identificare l’essenza d’un regime totalitario che, prima di concludersi tragicamente, ebbe modo di farsi amare e odiare quasi nella stessa misura.
Nelle sembianze d’un bassorilievo, sia pure un tantino mal ridotto, a causa di forse recenti e, comunque, vani tentativi di cancellarlo, ecco infatti emergere un autentico fascio littorio, quello che, ufficialmente preso a prestito dalle costumanze magistratuali d’epoca romana antica o, forse più realisticamente, tratto dalla iconografia francese dell’autorità dello Stato repubblicano, fu introdotto da Benito Mussolini alla notorietà, in principio per vestire d’un simbolo esauriente l’aggregazione soprattutto di reazionari, nazionalisti bellicisti, reduci ed ex arditi dell’Esercito Regio che, negli anni subito dopo la Grande Guerra, premevano per un riscatto politico della situazione dell’Italia, frustrata nelle proprie mire irredentiste, poiché privata di parte di territori rivendicati fin dall’Unificazione, malgrado la vittoria sull’alleanza austro-tedesca, costata sangue di più d’un milione di Italiani, oltre il lacerante danno sociale ed economico inferto alla società.
Come sia possibile che un’architettura, tanto vistosamente medievale, possa esporre, scolpito nella propria stessa pietra, un segno politico così pregnante e, al tempo medesimo, di portanza temporale così distante, potrebbe rivelarsi un mistero da sommare a quello dell’impatto che quella stessa produce alla percezione iniziale.
In verità, poiché è con essa e non con ciò che zampilla dalla fontana delle impressioni, che chi osserva dovrà fare prima o poi i conti, ciò che spiega l’accumularsi di tali peculiarità, d’acchito così enigmatiche, è da ricercarsi nella carta d’identità di questo inconsueto fabbricato. Una volta finalmente tra le mani e aperta, s’apprenderà innanzitutto della sua data di nascita, vale a dire gli anni ’30 solo del secolo scorso e, subito poi, della firma paterna, quella di colui che lo progettò, il campano Edoardo Orabona, all’epoca Ordinario d’Idraulica Agraria presso l’Università di Bari, in seguito tra i fondatori della Facoltà d’Ingegneria presso lo stesso Ateneo.
Sviluppato su quattro livelli, comprendendo il pian terreno, per una superficie totale di 1836 metri quadri se non s’eccettua la fascia verde che lo costeggia quasi del tutto, il manufatto nacque su commissione dell’Ente Acquedotto, con la funzione di ospitare un serbatoio d’acqua pensile, dedicato al rifornimento idrico del territorio, insieme ai necessari uffici di competenza. Per tale ragione, andò sempre noto come Palazzo dell’Acquedotto.
La suggestiva architettura corrispose ad un voluto effetto d’imponenza, da raccordare all’ispirazione che il Governo d’allora, nato proprio dalla movimentazione avvenuta sotto l’egida di quel fascio che campeggia all’accesso, impose genericamente alla fattura delle opere pubbliche. Queste dovevano esprimere il senso superiore e tangibile d’uno Stato che sovveniva generosamente ai bisogni della comunità, anche se, di fondo, pure con l’intenzione retrostante d’assicurarsi, con ciò, un efficace mezzo di propaganda, valido come contrappeso alle attività di repressione e di privazione imposte in altri settori della vita sociale.
Si trattò dell’attuazione d’una peculiare politica di utilità pubblica, quella che si consumò nell’arco d’un lasso di tempo divenuto famoso come Ventennio, non dissimile da quella attuata da altri regimi autoritari, come quello nazionalsocialista in Germania, il franchista in Spagna e lo staliniano in Russia. In tutti questi casi, sempre accadeva che, di regola, mentre si togliesse prepotentemente da una parte, si concedesse prodigalmente da un’altra.
In quanto ritenuto d’interesse socio-culturale, il complesso è stato acquisito nelle proprietà del Comune con la somma di 780.000,00 euro nell’ultimo decennio e, per ora, è qualificato come sito di archeologia industriale, considerando che mantiene intatte, al proprio interno, vasche ed attrezzature per la conservazione delle acque.
Per via della sua singolarità e dell’innegabile fascino capace d’esercitare, la struttura di via Fiume è pure tra gli immobili di pregio annoverati dal FAI (Fondo Ambiente Italiano) nel patrimonio culturale e artistico del Paese.
Non è un caso che la stessa benemerita istituzione, presieduta dal Professor Andrea Carandini, lo abbia pure inserito nel censimento dei così detti Luoghi del Cuore, verso i quali chiunque può manifestare la propria predilezione attraverso una preferenza da esprimere in un sito elettronico dedicato.
Proprio per impulso e sotto la tutela del FAI, nel corso di due giornate, il 23 e il 24 Marzo dell’anno passato, le porte del palazzo sono state eccezionalmente aperte ai visitatori, con gli studenti della III B e della IV A del locale Liceo Ginnasio “Cagnazzi” impegnati in un servizio di guida, affiancando le proprie narrazioni a rassegne sul motivo dell’acqua.
E v’è, infine, di più. Una proposta, avanzata fin dal 2011 in Consiglio comunale, vorrebbe che, al suo interno, venga ospitato un Museo del Pane, ragione ulteriore, se dovesse procedersi all’attuazione, per guardare con orgoglio a quello che rimane, secondo solamente alla Cattedrale federiciana, il monumento più sensazionale che Altamura possa vantare al giorno d’oggi.