VITTORIO POLITO - I dialetti, com’è noto, sono sistemi linguistici d’ambito geografico e rappresentano, per molti, un ulteriore mezzo di comunicazione, ovvero una seconda lingua per potersi intendere fra gente dello stesso paese o della stessa regione. I dialetti possono considerarsi anche messaggeri di tradizione e di cultura.
I dialetti hanno anche un importante ruolo nella storia, nelle tradizioni, usi, costumi e valori delle comunità che lo utilizzano. E, proprio dalle parole dialettali, è possibile risalire alle nostre origini.
Mi riferisco alle parole del dialetto barese che lo storico Vito Antonio Melchiorre (1922-2010) tratta nella sua nota “Le parole di Bari”, inserita nella pubblicazione “Bari vecchia”, edita da Adda e curata da Lino Patruno. Melchiorre tratta l’argomento con dovizia di particolari evidenziando come “la parlata dialettale, assolve non solo la funzione di soddisfare le esigenze espressive di uso giornaliero e di carattere popolare, ma anche quella più significativa, di tessuto connettivo fra il passato e il presente, nel quale ogni epoca e ogni accadimento ha lasciato un segno del suo passaggio”.
Mi piace citare qualche esempio per meglio chiarire l’argomento: “attane”, che significa padre, deriva dal greco “atta” e ricorda certamente i contatti antichissimi con la Grecia. Ugualmente greco è anche il vocabolo “tavute” che significa bara e deriva da “tafè”.
Gli arabi, presenti stabilmente con un Emirato in Bari nel IX secolo e per trent’anni, lasciarono molti vocaboli, che usiamo ancora oggi, come “mafisc” (niente), “felusce” (denaro), a cui si aggiungono moschea, caraffa, ricamo, carato, fondaco. Anche molti cognomi sono di origine araba come, ad esempio, Mele, Morisco.
Da registrare il contributo di francesi e spagnoli, come ad esempio “sanfasonne” (alla carlona), “breloque” (ciondolo), “sckeppette” (arma da fuoco).
Nino Lavermicocca (1942-2014), nel suo tascabile “Bari Vecchia” (Adda), menzionando le varie dominazioni, ricorda altre parole derivanti dal greco come “júsk” (fa male), “kekkevásce” (civetta), “tiáne” (tegame), “vastáse” (facchino), “chiacúne” (fico secco), “lanáca” (lasagna). Dal germanico abbiamo (sciruekkie” (sciocchezze), “stambáta” (pedata). Dall’arabo abbiamo “mappíne” (tovagliolo), “zagaridde” (merletto). Dallo spagnolo abbiamo “marro” (interiora di agnello), “zoca” (fune), “palúmme” (colomba), “tiíne quíte” (abbi cura), “buátte” (scatola), “arréte” (di nuovo).
Ed a proposito di cognomi, Lavermicocca ricorda Alfano, Brandonisio, Carducci, Leopardi, Grimaldi (tra i longobardi); Amodio, De Deo, Dioguardi, De Giosa, Mercoledìsanto (tra gli ebraici); Barracane, Cafaro, Saladino, Morabito (fra gli arabi); Alessio, Anaclerio, Carrassi, Fanelli, Caradonna, Romanazzi, Rafaschieri, Lojacono, Colajanni, Maurogiovanni (fra i bizantini); Armenise, Amoruso, Caccuri, Posca, Trevisani, Versace, Armani (fra gli armeni). Ma si tratta solo di alcuni esempi.
Con le espressioni dialettali è possibile rievocare una infinità di circostanze, assolutamente irrealizzabili nella lingua italiana. Esempi: “te fazzeche a n’ore de notte” (ti faccio nero di botte), o “cape de zi vecienze” (uno che non conta niente), parimenti è “filecenze” (dal latino “sit cum licentia”), frase che i bambini usavano per interrompere un gioco e, il conosciutissimo “va a rubbe a Sanda Necole”, che si riferisce chiaramente al tesoro del nostro protettore, o “u remmate” (l’immondizia), che non significa immondo (come in italiano), ma “quel che rimane”.
Per non parlare della parola schiaffo (sckaffe) con la sua ricchezza di espressioni: beffettone, lavamusse, garzale, sale e scinne, cannàle, mandelline, ecc. Se ne contano una quarantina. Tipica espressione dello schiaffo è “dà u sckaff’a Criste” (disprezzare il benessere).
Eugenio Montale (1896-1981), in un elzeviro pubblicato sul “Corriere della Sera” del 15 gennaio 1953, evidenziava che «Aver scoperto il dialetto come “una lingua vera e propria” sta a significare che la lingua ufficiale spesso è da considerare “insufficiente o impropria” ad un’ispirazione»
Concludendo “È importante che i giovani mantengano l’uso del dialetto, in quanto le lingue locali rappresentano un patrimonio culturale rilevantissimo - afferma Riccardo Regis, professore associato di Dialettologia Italiana all’Università degli Studi di Torino -. I dialetti, infatti, costituiscono un patrimonio immateriale di grandissimo rilievo che può aiutarci a meglio interpretare la realtà circostante, dalle tradizioni locali ai nomi di luogo”.