Salento vs Sardegna, parla la scrittrice Federica Murgia
FRANCESCO GRECO - Salento vs Sardegna: due terre incantante, magiche. Di cui ci si può innamorare impastandole nel proprio dna, immaginari, percezioni, narrazioni. È accaduto alla scrittrice Federica Murgia, sarda di nascita (è nata a Seulo, in Barbagia), che però vive nel Salento (Specchia) dopo aver sposato il grande pittore Luigi De Giovanni, che espone in tutto il mondo.
Autrice di due romanzi, “Il paese della rosa peonia” (2016) e “I Pasano” (2019) entrambi editi da “Il Raggio Verde”, protagoniste le donne, la sua terra natia e quella di adozione, che riecheggiano in entrambi.
DOMANDA: Trova delle somiglianze nel paesaggio fra Terra d’Otranto e Sardegna, come appare nei dipinti dal maestro De Giovanni?
RISPOSTA: "Sicuramente le luci, le atmosfere, il paesaggio pietroso ma anche marino mi ricordano la mia terra. Luigi De Giovanni coglie questi aspetti e ama le due terre dove trova humus e genius che gli è naturale trasmettere attraverso i suoi dipinti. Certo ha un’attenzione particolare per il suo Salento dove c’è l’essenza del suo essere: le sue radici che lo nutrono, anche di ribellione".
D. E sotto l’aspetto antropologico, fra l’uomo sardo e quello salentino ci sono affinità?
R. "La cultura sarda è condizionata dall’insularità e quest’aspetto è evidente nell’uomo che ha sviluppato un carattere che tende all’introversione e alcune volte alla diffidenza e, nella società agropastorale, alla solitudine. Il sardo è identitario ed è legato al suo passato culturale che ama, rispetta e conserva conscio dell’unicità del vivere nell’isola dei nuraghi, dei pozzi sacri o degli altari omaggio alla madre terra; è identitario nella lingua, nel costume e negli aspetti legati alla musica quale quella delle launeddas e nei canti a tenores: basta vedere la sagra di Sant’Efisio per rendersi conto dell’essenza del sardo rispetto alle sue tradizioni. Il Salento è sempre stato una terra di passaggio e la sua popolazione è aperta e socievole e la cultura è il risultato d’un miscuglio di civiltà e di popoli che hanno condizionato le tradizioni. Secondo me nel Salento non è molto sentito l’amore per il passato e onestamente io non ho mai visto un gruppo folcloristico con costume tradizionale. In Salento è come se si volesse sfuggire il passato, mentre in Sardegna si fanno studi e convegni per valorizzarlo, diffonderlo e amarlo, in questo senso assume grande importanza la lingua sarda. Questo determina la diversità fra l’uomo sardo e quello salentino che comunque mostrano d’intendersi e di condividere molti aspetti della vita moderna".
D. Topoi culturali: esistono assonanze?
R. "Nel libro ho descritto il Salento fra gli anni ‘20 e ’50, quando la povertà, lo sfruttamento e il condizionamento attuato anche con la religione, la divisione sociale in classi rigide, la violenza e i soprusi, evidenti nelle vicissitudini dei protagonisti, erano caratteristiche del vivere dei poveri che non avevano speranze. Ho trovato che l’emigrazione e lo studio abbiano dato un volano per far acquisire coscienza, rispetto e dignità. Anche in Sardegna la povertà era molto presente ma esistevano regole ataviche, contenute nel “Codice de Logu” promulgato nel 1393 dalla giudicessa Eleonora d’Arborea, che impedivano molti soprusi e davano una possibilità di emancipazione ai poveri, e benché con i Savoia questo codice venne abolito, è rimasta nei sardi la formazione interiore che porta a rispettarlo. Per fare un esempio: tutti in Sardegna potevano diventare padroni e il servo pastore, che iniziava a lavorare sin da undici anni, aveva un contratto molto rigido anche per il padrone che aveva l’obbligo di dargli la retribuzione pattuita, che consisteva in capi di bestiame, vestiti, alimentazione e latticini. Si diceva che il ragazzo si era “accordau”, cioè aveva fatto un accordo. Intorno ai vent’anni il servo pastore era pastore esperto e diveniva proprietario di un gregge di pecore o capre, di un branco di maiali o di una piccola mandria. Questo impediva lo sfruttamento e gli abusi. Forse proprio la presenza della “Carta de Logu” aveva dato la certezza nei rapporti interpersonali e diritto al rispetto. Nel mio libro “I Pasano” ho descritto il Salento, il lavoro dipendente, quasi sempre mediato da un caporale che imponeva una gabella sulla paga stabilita dal padrone e spesso consistente in prodotti della terra: chi aveva la ventura di nascere servo aveva poche speranze di emancipazione. Purtroppo, questa abitudine non è ancora scomparsa. Le paghe non erano mai commisurate al lavoro svolto. In tempi recenti la retribuzione è spesso bassissima ma corredata dal pagamento di contributi, per cinquantadue giornate di lavoro, che danno il diritto alla pensione. Purtroppo, si arrivava all’estremo di lavorare solo per i contributi. Nei rapporti di lavoro c’era e spesso e c’è ancora lo sfruttamento. Ho notato che l’emigrazione e lo studio hanno dato dignità, consapevolezza dei diritti e anche ricchezza".
D. E le donne? Possono essere sovrapposte quelle sarde a quelle del Salento?
R. "La donna salentina, che lavorava tantissimo e veniva sfruttata e spesso abusata dai padroni, nei racconti che mi hanno fatto, mi appariva come vinta dalla povertà e dalla mancanza di diritti. Le donne sarde, anche loro grandi lavoratrici nei campi e capaci di sostituirsi ai mariti in caso di necessità anche nella conduzione del bestiame, mi sembravano meno condizionate e più battagliere, questo era forse legato al fatto che per secoli avevano la legge che le tutelava: tanto che le donne potevano regnare dal 1200. A questo proposito, già nel “Codice de Logu” era sancita la tutela anche in caso di stupro. Oggi non colgo differenze e le salentine mi sembrano determinate e indipendenti: avere la legge che le tuteli porta alla consapevolezza e al rispetto. Unica cosa è che spesso ho l’impressione che in Salento l’economia, soprattutto nel caso delle casalinghe, venga gestita dai maschi ma non potrei affermare che questa sia la regola. Le donne sarde, almeno quelle legate alla tradizione agropastorale, mogli di pastori assenti da casa dall’alba al tramonto o per lunghi periodi con la transumanza, sono le padrone di casa e gestiscono l’economia delle famiglie e l’educazione dei figli: in genere sono loro che vanno in banca, alla posta e negli uffici vari. Sono sempre consultate dai mariti prima di qualsiasi decisione. Infatti, quando un uomo sardo, che sta per concludere un affare, dice di doverci pensare, di dargli tempo sino all’indomani, è perché non può esimersi dal consultare la moglie".
D. In cucina ci sono piatti in comune o lì si celebra un’assoluta difformità?
R. "In Sardegna è d’uso una cucina ricca di latticini, carni, legumi, cereali e verdure, anche il minestrone si fa con l’aggiunta d’un formaggio speciale. I piatti tradizionali rimangono il maialetto arrosto (su porceddu), ravioli ripieni di patate e formaggio pecorino e profumati con menta e aglio (is culurgionis). Una caratteristica comune fra le due regioni è che non si usano le uova per fare la pasta fatta in casa. In Salento i piatti tradizionali, gustosissimi, sono a base di legumi e verdure anche selvatiche ed è molto presente la carne di cavallo (i pezzetti). Gli gnocchetti sardi sono vicini alle orecchiette: entrambi sono a base di semola e acqua e sono caratterizzanti delle due culture. I sapori sono differenti, ma entrambi molto buoni. In Salento ho trovato eccezionali la “paparina” e le fave nette con cicorie selvatiche. In Sardegna ci sono moltissime varietà di dolci che hanno come base noci, nocciole, mandorle, castagne, formaggi e miele come nel caso delle “sebadas”. Gli unici dolci che mi sembrano simili, anche negli ingredienti, sono le chiacchiere da noi chiamate “is meravigliasa”, poi ci sono “is origliettas”, “is tiliccas di sapa” e i “pistiddi”, per gli ingredienti o la forma anche se non sono fritti, si avvicinano alle cartellate pugliesi. Una caratteristica dei dolci sardi e del pane delle feste è che il più delle volte sono decorati e incisi come fossero piccole sculture".
D. C’è ancora la figura dell’accabadora?
R. "La figura di “s’accabadora” non c’è più e alcuni studiosi hanno dei dubbi sull’esistenza di una donna come “s’accabadora” che era colei che dava una morte a chi, moribondo, stava soffrendo tantissimo: una sorta di addetta all’eutanasia pietosa. Il libro di Michela Murgia la descrive con dovizia di particolari. La scrittrice dice d’essere partita dal racconto d’una signora d’un paese vicino al mio. Qualcuno a Seulo probabilmente ha memoria di racconti legati a questa figura ma mia mamma, che ha 93 anni, non ha mai sentito parlare di una “accabadora” che vi operasse, anche se ha sentito racconti che ne citavano la funzione. Ho letto che “s’accabadora” era contemporaneamente anche levatrice perché in Sardegna la morte viene vista come fase naturale della vita".
D. Esiste anche in Sardegna la figura del folletto, un archetipo delle nostre favole?
R. "Mi ha molto incuriosito la figura del “Municeddhu”, molto frequente nei racconti salentini, tanto che è presente nel mio libro. Anche in Sardegna esistono figure simili, una viene chiamata “su Pundacciu” o folletto dei sette berretti, goffo, gobbo, grassoccio, velocissimo e dispettoso, l’altro era “s’Ammutidori”, un essere cattivo che rubava l’anima alla gente promettendo tesori e moriva solo se un malcapitato riusciva a rubargli il piede mentre il folletto riposava: più o meno le due figure sono vicine a quella di Municeddhu. La Sardegna è ricca di racconti di entità magiche, fra queste mi piace ricordare “is Janas”, alte intorno ai 25 centimetri, che potevano essere buone o cattive. Poi c’erano le “Panas” presenti anche in “Canne al Vento” di Grazia Deledda".
D. La Deledda e Gavino Ledda sono i cantori della Sardegna di ieri e d’oggi: cosa sopravvive di quelle visioni nel XXI secolo?
R. "Nei racconti che ci facevano davanti al caminetto (contus de foxili) era presente il mondo di Grazia Deledda in tutti i suoi aspetti e non mancava quello magico che alcune volte mi faceva paura: come nel caso dei racconti delle “Panas” (donne morte di parto) che lavavano i panni nella notte e battendoli con uno stinco di morto facevano un gran rumore, o i folletti fantastici che benché ci intimorissero ci davano speranza. A Seulo, in montagna dove abitavo, negli anni ‘50 tutte le attività erano manuali o fatte con l’ausilio degli animali. C’era un via vai di carri trainati da buoi, di asinelli carichi dei prodotti dell’orto, di cavalli che portavano i pastori al bestiame. Ora molto è cambiato e le macchine fanno i lavori più pesanti. Diciamo che le relazioni umane sono rimaste immutate in prossimità ma rinnovate con la tecnologia. Certe antiche usanze, quali le faide e l’abigeato, incidono meno nelle relazioni. La pastorizia è rimasta inalterata nell’organizzazione dei tempi, nei ritmi lenti. Pure la vita solitaria del pastore, che non conosce feste o vacanze, è sempre la stessa, anche se usa il cellulare e l’ipad continua ad avere la “leppa” (coltello a serramanico) per scolpire pezzi di legno o il flauto che lo accompagna nei momenti di solitudine. Mentre quando sono in gruppo anche oggi non mancano i canti a tenore, la morra e il ballo musicato con la sola voce. Ora, frequentemente, vengono usate mungitrici meccaniche e il latte viene portato in caseificio: i sacrifici però non sono cambiati. Io ritengo che i pastori sardi amino il loro mestiere sia per l’indipendenza che per la libertà: senza dimenticare la bellezza di vivere all’aria aperta spesso in ambienti bellissimi e incontaminati. La figura del pastore descritta da Gavino Ledda in “Padre padrone” non l’ho mai colta, con tutta quella drammaticità, nella mia zona. Anche se quando ero bambina i miei genitori accolsero un ragazzino scappato da casa, con un amichetto che venne ospitato da un nostro vicino, di un paese confinante con il mio. Lui ci aveva raccontato che stava sempre solo, con le pecore, in montagna e che il padre lo trattava male e raramente lo faceva andare in paese o con gli amici per cui chiedeva a mio padre di tenerlo a servizio. Babbo con il vicino andarono in caserma e chiesero che venissero informati i genitori della presenza dei loro figli nelle nostre famiglie. Il ragazzino che avevamo ospitato, con il permesso del padre, rimase a lungo con noi, poi, dopo anni decise di fare il cameriere, perché la vita del pastore non gli piaceva, senza mai dimenticare la nostra famiglia a cui rimase sempre legato. In linea di massima, nella Barbagia di Seulo, caratterizzata da montagne impervie, i genitori curano molto i figli tanto che il paese è famoso per l’altissimo numero di laureati in rapporto agli abitanti. Ora mi pare che dei mondi descritti da Lecca e Deledda rimangano tracce nel settore della pastorizia per la vita del pastore, ma anche nelle grandi coltivazioni di ortaggi o frutta dove, nel sud Italia e non solo, sopravvive ancora il caporalato e lo sfruttamento dei raccoglitori spesso ospitati in baracche fatiscenti inammissibili in una società moderna. Quest’ultimo aspetto è presente anche nel mio ultimo libro “I Pasano”, dove le famiglie povere anche con dieci figli vivevano in un’unica camera dove cucinavano, dormivano e vi ospitavano persino le galline".