Altamura. Il Claustro del Tradimento |
ROBERTO BERLOCO - Altamura. Insieme a quello chiamato Inferno, è uno dei claustri più emblematici del centro storico. Vi s’accede solo valicando l’area medievale del paese, e l’ingresso più vicino coincide allo sfocio della via dedicata al musicista Vincenzo Lavigna, una stradina che costeggia la chiesa di Santa Lucia, fino a congiungersi con l’ultimo tratto di via Giandomenico Falconi.
In prima apparenza è un claustro non diverso dai molti altri disseminati entro la cinta muraria d’era federiciana. Introdotto da una sorta d’alto e stretto androne senza volta, si dischiude secondo un perimetro rettangolare poco ampio e serpeggiante, sul quale s’affacciano usci e finestrelle di abitazioni stagionate ormai da centinaia d’anni.
A dirla tutta e, forse, per via della ristrettezza dello spazio complessivo, più si fanno passi per portarsi al suo interno, più s’avvalora la sensazione di trovarsi dentro un claustro nel suo senso letterale, vale a dire quello di luogo chiuso, e tanto malgrado, comunque, sollevando lo sguardo, pure si finisca per incontrare uno sprazzo di cielo.
Di più ancora, ove si tenti di prolungare la sosta nel suo mezzo, potrebbe anche accadere di sentirsi invasi da sensazioni di smarrimento o, addirittura, di panico che, tuttavia, sembrerebbero lì per lì sul punto di dissiparsi al rassicurante profumo di storia emanato dall’elemento architettonico.
E, magari, finirebbero per dipanarsi di certo, se la vicenda che questo sito racconta fosse collegata alle gesta d’un noto Santo o d’un benemerito del luogo, oppure d’un personaggio storico meritevole degli allori di guerra o, ancora, d’uno dei così detti Martiri della Rivoluzione del 1799, gli stessi che contribuirono a valere per Altamura l’appellativo di Leonessa delle Puglie.
Già il suo nome, invece, narra di ben altro, con una terribile parola, quella di tradimento, a campeggiare, in bella posa e con lettere tutte in maiuscolo, nella targa che introduce alle sue viscere. La sua singolarità è accresciuta dal fatto che nessun altra cittadina pugliese sembri contenere una via, una piazza o anche solo un vicolo, nella cui dedica toponomastica si faccia menzione esplicita di un atto d’infedeltà talmente grave da meritare d’esser ricordato con una solenne dedicazione.
Quale, poi, questo atto possa essere, non è difficile d’appurarlo, dando appena voce a qualunque cittadino incrociato per caso nei paraggi stessi del punto. Con pazienza di amico e gusto d’amante del proprio paese, egli saprà subito spiegare d’un evento considerato leggendario e collocato temporalmente ben oltre due secoli fa.
Ad Altamura era il 1799, anno della prima consolidazione sostanziale dei principi della Rivoluzione francese nel Mezzogiorno d’Italia, tra cui spiccava, in tutto il suo attraente fascino, quello della libertà dal regime assolutistico della monarchia. Il momento preciso quello dell’epica renitenza del popolo della civita all’assedio dell’esercito della Santa Fede comandato dal Cardinale Fabrizio Ruffo, uno dei principali e più efficaci artefici del processo reazionario che sarebbe culminato nel ritorno di Ferdinando IV di Borbone all’effettività del suo diritto di Re delle Due Sicilie.
L’aria era intrisa del deciso tepore della Primavera avanzata, quella di Maggio che chiama con sempre più forza il gran calore dell’Estate. Fuori dalle mura, in corrispondenza di Porta Matera, nell’area che oggi si direbbe di piazza Zanardelli, stavano accampate le truppe del Ruffo, partite da Pizzo Calabro con passo costante di vittoria, composte in parte da reparti regolari, in parte da popolani o uomini di galera adattati al ruolo di mercenari, e via via che si faceva da presso di prender Altamura, anche da gente proveniente dai paesi limitrofi a questa, attirata dal bottino che si prevedeva con la riconquista dell’Apula Atene.
Ad un certo punto, il dì del 9 di quel Maggio, da ambedue le fazioni si diede di stura all’artiglieria, quella altamurana composta di cannoni anche ottenuti fondendo il metallo delle campane delle chiese. E che quest’ultimo particolare abbia avuto un peso nella fortuna, lo dice il successo che, almeno finché non mancarono munizioni, quelle bocche di fuoco ottennero nel campo antagonista, dove i resoconti dell’epoca contarono ben oltre il migliaio di morti.
Pare che il Ruffo, di fronte all’ostinazione degli altamurani, venisse addirittura assalito dallo sconforto e fosse sul punto di rinunziare a proseguire il blocco. A farlo desistere dall’intento, fu un atto d’ingenua disperazione da parte di quel suo avversario ch’egli giudicava tanto temibile: d’un tratto, i mortai a difesa cominciarono, infatti, a sparare monetine, anziché palle roventi.
Da questo, il Principe della Chiesa comprese che gli esplosivi erano terminati e che la resa degli assediati era questione ormai di poco. Al calar della notte, la popolazione fuggì via da Porta Bari, un accesso non presidiato con probabilità per volere dello stesso Ruffo, al quale riuscì così d’evitare il massacro degli abitanti, ma non il saccheggio, che avvenne malgrado un’ultima, valorosa ma inutile guerriglia da parte di pochi arditi restati in paese.
Ma se la realtà di quanto accadde diede torto alle aspirazioni del popolo federiciano di quell’ultimo anno del XVIII secolo, la memoria postuma seppe far giustizia del suo coraggio, coniando l’appellativo d’eco leonina che, tutt’ora, accompagna il nome della città quando si tratta di presentarlo alla fama pubblica.
D’altra parte, non è un caso che la stessa istituzione municipale, nelle proprie pagine ufficiali, invochi spesso questo particolare soprannome, insieme al titolo di Città del Pane. Va da sé che, dopo quel clamoroso episodio, il fiume degli eventi riprese l’alveo del proprio corso, con Altamura che ebbe a calzare ancora un ruolo da protagonista tra i successivi marosi risorgimentali, sino alla proclamazione della cosiddetta Unità d’Italia sotto l’egida dei Savoia.
Col passar del tempo, però, come di regola accade quando le ferite son troppo grandi e tardano a rimarginarsi, alla sintesi di quei fatti s’aggiunsero contorni di aneddoti e rimembranze di avveniment inizialmente passati in second’ordine, tra i quali s’insinuò anche un racconto che aveva del sorprendente e che, pur non avendo la verità dalla sua, non rinunziava a portarsi appresso una certa qual apparente plausibilità.
Secondo questa voce, senza suffragio del minimo riscontro storiografico, proprio durante quel giorno così clamoroso per la storia del luogo, una giovane donna avrebbe maturato di consentire ai militi del Ruffo di entrare nell’urbe attraverso un passaggio che collega il claustro, oggi detto appunto del Tradimento, con l’esterno delle mura, in quella che, attualmente, è via Cristoforo Colombo.
Nella narrazione prevalente, a spingere questa ragazza verso il gesto così temerario d’aprire un varco al nemico del proprio suolo natio, sarebbe stato semplicemente il sentimento provato nei confronti d’uno dei miliziani sanfedisti.
Naturalmente, si tratta d’una ricostruzione mitica, se non altro per i numerosi elementi d’improbabilità che questa contiene. Il più imponente quello delle circostanze di volontà, oltre che spaziali e temporali, entro cui avrebbe dovuto svilupparsi un sentimento amoroso talmente forte da spingere a tradire così duramente.
Secondo una delle rappresentazioni aggiudicabili, già nella giornata d’arrivo delle truppe realiste, la dama in questione, al sicuro del confine murario come tutto il resto della sua comunità, avrebbe infatti dovuto trovarsi capriccio, intraprendenza ed eccezionale coraggio anzitutto per uscire dalla cinta, poi raggiungere l’accampamento calabrese, col rischio d’esser freddata prim’ancora di arrivarci, e una volta qui, magari dopo le presentazioni del caso, ritrovarsi di colpo presa dalla vista d’uno dei soldati, per subito, magari proprio mentre iniziavano i cannoneggiamenti, con costui promettersi amore a prova di tradimento.
Un amore per la vita, uno talmente forte che, per non ammettere di esser tradito, avrebbe ben potuto ammettere proprio un tradimento, quello verso la propria città patria, forse chiesto dall’amato, forse offerto addirittura di propria sponte dall’innamorata.
Naturalmente è doveroso anche immaginare che, prima d’una decisione così grave, il suo cuor di donna abbia temporeggiato non poco di fronte al bivio che le si poneva innanzi, tra una strada che l’avrebbe portata a coronare le esigenze sentimentali con il forestiero che il fato le offriva improvvisamente agli occhi, ed una che, al contrario, la chiamava a tornare tra le braccia del popolo che, fino ad allora, l’aveva difesa e, con tutta certezza, avrebbe continuato a farlo.
Se si trattasse d’inchiostrare la trama d’una tragedia da piazzare in scena, si potrebbe anche tentare di dar fuoco al flusso di pensieri contrastanti che un ragionevole dubbio avrebbe ben potuto originare nella mente di questa fiabesca cittadina, vissuta oltre duecento anni fa. E chissà che non ne sarebbe potuta emergere persino un’armonia di parole degna di richiamare alla mente taluni monologhi passati alla celebrità con la firma d’un certo William Shakespeare!
Alla fine, veder questa donna decidersi per un epilogo romantico, sarebbe comunque passato in secondario, disonorevole piano rispetto al risvolto drammatico innescato per conseguenza. Il militare al quale solo ella aveva giurato tutto il proprio amore, avrebbe infatti presto ricambiato a modo suo, forse promettendole di portarla con sé al termine delle ostilità, ma di sicuro non esitando a penetrare all’interno delle mura, nelle ore notturne tra il 9 e il 10 di Maggio, insieme ai propri commilitoni, attraverso un passaggio svelato da quella che, se tutto fosse stato vero, le cronache civiche avrebbero appellato per sciagurata traditrice, forse anche aggiungendoci, vendicativamente, nome e cognome.
Neppiù d’un adito che, da un segmento inoltrato del claustro, oggi appunto detto del Tradimento, sviluppandosi attraverso ambienti fra loro connessi, dà sbocco all’esterno del recinto posteriore del Monastero del Soccorso.
Appena un corridoio che, quindi, avrebbe permesso ai nemici della Libertà, proclamata tempo addietro con l’innalzamento dell’Albero della Rivoluzione in piazza del Duomo, di poter beffare la resistenza dei locali, altrimenti indomabile e vincente.
Ed è qui, tra le pieghe finali d’una leggenda, che s’annida, forse, la ragione d’una tanto misteriosa esaltazione che il popolo altamurano volle per un atto così vergognoso provenuto dal proprio seno.
Poiché, così, versando un calice di colpa interamente sulle spalle d’una figlia indegna, venne anche, o soprattutto, a spiegarsi una sconfitta non solo non meritata, ma per giunta assai improbabile, se si fosse rimasti tutti fedeli all’ideale d’esser liberi dalla tirannide.
Un capro espiatorio, insomma, per arginare il dolore d’un orgoglio punto nel vivo d’una delle sue
massime occasioni di protagonismo storico, per non finire d’esser additati ancora come adusi solo alla disfatta, dopo i moti rovinosi del Maggio del 1648.
Ad andar oltre, tra le altre varianti del popolare mito, ne vige pure una, sempre ignominiosa ma che sprona maggiormente all’istinto della misericordiosa comprensione, con protagonista, guarda caso, ancora una donna del posto, anche se, stavolta, più matura in età e madre di sette figli. Nella speranza di vedersi risparmiata insieme alla numerosa prole, ella avrebbe di propria iniziativa consentito il transito dei combattenti al soldo del Cardinale di Sant’Angelo in Pescheria, attraverso una specie di deposito che possedeva a piano terra, con un affaccio all’interno del claustro ed uno, appunto, all’esterno delle mura.
In qualunque brodo di versione venga servita, per chi accese la scintilla di questa fantasia, fosse stato un uomo di volgo, un fiero borghese o, finanche, un aristocratico ostile al Borbone, in ogni caso qualcuno di Altamura che teneva a raccontar la storia per come sarebbe andata e non per come andò, vi fu il premio d’esser creduto malgrado non fosse da credere, con la stessa municipalità a coronare quella consolatoria illusione, con l’onore d’una intitolazione ad un improvabile disonore che, ancor oggi, contribuisce comunque a tener vivo un ricordo degno di mai esser sepolto, quello d’una eroica, autentica resistenza costata il sacrificio di uomini che credettero talmente nell’ideale della libertà, da non esitare a versare il proprio sangue sul suo altare.