FRANCESCO GRECO - Ipse dixit: “Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia madre voleva che facessi il dottore, ma io ho fatto l’aggettivo: il felliniano”. In morte di Federico il Grande, Benigni ebbe a dire che era come se d’improvviso fosse mancato l’olio. Un’allegoria. Ma sentiamo meno la sua mancanza perché il Maestro ha esegeti, seguaci, cultori del suo mondo magico e delirante sparsi in ogni meridiano e parallelo nei cinque continenti.
“Tu sei tutto, Sylvia. Ma lo sai che sei tutto? Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione…”, Fellini.
Il centenario della nascita (20 gennaio 1920-31 ottobre 1993), è l’input per osservare l’uomo, il genio, la sua arte sotto ogni angolazione per svelarne ulteriori aspetti inediti, o poco indagati.
In questa ottica va inquadrato il delizioso saggio di un fellinologo della prima ora (intorno al Nostro, le amicizie erano a cerchi concentrici con gerarchie), Oscar Iarussi ha mandato in libreria “Amarcord Fellini” (L’alfabeto di Federico), Il Mulino, Bologna 2020, pp. 248, euro 16,00 (collana “Intersezioni”).
“A Federì, vattene a dormì” (Anna Magnani in “Roma”).
Da Amarcord a Zampanò, passando per Nino (Rota) e la Ekberg (“martire del peccato alla maniera di Verga”), Marcello (Mastroianni) e Giulietta (Masina), dal Grand Hotel di Rimini ai vitelloni soffocati dalla provincia (“Lavoratori della mazza”), incluso Paparazzo (preso dal nome di un albergatore delle Calabrie ne “Sulle rive dello Ionio”, racconto di viaggio dell’inglese George Kissing a fine Ottocento), con ricchezza di aneddoti e interfacce inesplorate (almeno per noi che del Genio conosciamo solo i film, e manco tutti, visto che il culturame tracimante li ha rimossi o confinati in una nicchia) che solo chi era vicino alla galassia di Fellini può conoscere e un emozionante corredo fotografico, Iarussi ricostruisce la parabola del Grande contaminandola di storia, sociologia, antropologia, psicoanalisi, politica, società e quant’altro.
“A dottò, mi scusi se glielo dico, ma non ci ho capito un cazzo!” (un tassista romano a Fellini dopo aver visto 8 ½). “E’ la migliore recensione che abbiano fatto per questo film” (Fellini).
Prende corpo e voce il ritratto di un uomo complesso, che ben mimetizzava i propri travagli esistenziali e gli incubi, risolvendoli anzi in materia da film, schiavo dei suoi sogni e ossessioni, nei cui labirinti (il “mistero potente dell’ombra”) si muoveva a suo agio.
“Mai conosciuto un uomo più bugiardo di Federico!” (Sordi).
Sostenuto da ampia bibliografia, Iarussi fruga nella simbologia e le allegorie, il ricco sottosuolo del magico mondo felliniano: le sue amicizie (con Sordi agli esordi, quando in una latteria di via Frattina mangiavano le bistecche e le uova nascoste nel piatto di spaghetti dalla cuoca), il matrimonio con la Masina, il sodalizio con Rossellini (di cui è sceneggiatore) e con Ennio Flaiano (1910), geniale quanto lui (che però muore giovane, 1972), “L’Italia? Un enorme mostro di noia”, “La stupidità ha fatto progressi enormi”, col poeta conterraneo Tonino Guerra, il gesuita Padre Angelo Arpa, il rapporto escatologico con la psicoanalisi di Jung (“uno dei grandi spiriti dell’umanità”, “un compagno di viaggio, un fratello più grande…”) col suo “puer aeternus” e le terapie con Ernst Bernhard, ecc.
“Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è fosforescente” (Fellini).
E anche nelle sue “visioni” profetiche: la crisi culturale e politica dell’Italia, la prevalenza della tv spazzatura (che infatti ha formattato i suoi film) con “Ginger e Fred”, il tracimare del gossip ch surroga tutto, delle fake-news e la propaganda, dell’ignoranza, la volgarità, la morte della bellezza, della poesia, dell’innocenza dello sguardo (“malinconici trastulli”, “sostanziale disfacimento”), avvolto in un cicaleccio che ci stordisce e ci aliena.
“Ecco, dottore, io vengo da lei perché vorrei tornare a essere così” (Fellini).
Pochi sanno, per dire, chi sono i cinque fratelli Spoletini, che ci fu chi una notte viaggiò da San Pietro Vernotico per portargli i taralli caldi e che “La dolce vita” fu stroncata da Rossellini (dice Fellini: “Mi ha guardato come Socrate avrebbe guardato Critone, scoprendo che l’allievo era improvvisamente impazzito”), Visconti (“Ma quelli sono i nobili visti dal mio cameriere”) e De Sica (“E’ una cafonata, il sogno di un provinciale”). Oltre che dai marxisti ortodossi e i cattolici (recensione di Oscar Luigi Scalfaro su “L’Osservatore Romano”, che decenni dopo cambierà opinione).
“Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò che dev’essere autentico è l’emozione nel vedere e nell’esprimere” (Fellini).
Un saggio che non può mancare nella libreria di chi ama il Cinema: l’arte di Fellini è immortale quanto rivoluzionaria, e sempre densa di nuove scansioni e decodificazioni. Tanto da far apparire molto cinema che è venuto dopo manierismi e citazioni. Rubbish. “Coraggio, il meglio è passato” (Flaiano).
“Tu sei tutto, Sylvia. Ma lo sai che sei tutto? Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione…”, Fellini.
Il centenario della nascita (20 gennaio 1920-31 ottobre 1993), è l’input per osservare l’uomo, il genio, la sua arte sotto ogni angolazione per svelarne ulteriori aspetti inediti, o poco indagati.
In questa ottica va inquadrato il delizioso saggio di un fellinologo della prima ora (intorno al Nostro, le amicizie erano a cerchi concentrici con gerarchie), Oscar Iarussi ha mandato in libreria “Amarcord Fellini” (L’alfabeto di Federico), Il Mulino, Bologna 2020, pp. 248, euro 16,00 (collana “Intersezioni”).
“A Federì, vattene a dormì” (Anna Magnani in “Roma”).
Da Amarcord a Zampanò, passando per Nino (Rota) e la Ekberg (“martire del peccato alla maniera di Verga”), Marcello (Mastroianni) e Giulietta (Masina), dal Grand Hotel di Rimini ai vitelloni soffocati dalla provincia (“Lavoratori della mazza”), incluso Paparazzo (preso dal nome di un albergatore delle Calabrie ne “Sulle rive dello Ionio”, racconto di viaggio dell’inglese George Kissing a fine Ottocento), con ricchezza di aneddoti e interfacce inesplorate (almeno per noi che del Genio conosciamo solo i film, e manco tutti, visto che il culturame tracimante li ha rimossi o confinati in una nicchia) che solo chi era vicino alla galassia di Fellini può conoscere e un emozionante corredo fotografico, Iarussi ricostruisce la parabola del Grande contaminandola di storia, sociologia, antropologia, psicoanalisi, politica, società e quant’altro.
“A dottò, mi scusi se glielo dico, ma non ci ho capito un cazzo!” (un tassista romano a Fellini dopo aver visto 8 ½). “E’ la migliore recensione che abbiano fatto per questo film” (Fellini).
Prende corpo e voce il ritratto di un uomo complesso, che ben mimetizzava i propri travagli esistenziali e gli incubi, risolvendoli anzi in materia da film, schiavo dei suoi sogni e ossessioni, nei cui labirinti (il “mistero potente dell’ombra”) si muoveva a suo agio.
“Mai conosciuto un uomo più bugiardo di Federico!” (Sordi).
Sostenuto da ampia bibliografia, Iarussi fruga nella simbologia e le allegorie, il ricco sottosuolo del magico mondo felliniano: le sue amicizie (con Sordi agli esordi, quando in una latteria di via Frattina mangiavano le bistecche e le uova nascoste nel piatto di spaghetti dalla cuoca), il matrimonio con la Masina, il sodalizio con Rossellini (di cui è sceneggiatore) e con Ennio Flaiano (1910), geniale quanto lui (che però muore giovane, 1972), “L’Italia? Un enorme mostro di noia”, “La stupidità ha fatto progressi enormi”, col poeta conterraneo Tonino Guerra, il gesuita Padre Angelo Arpa, il rapporto escatologico con la psicoanalisi di Jung (“uno dei grandi spiriti dell’umanità”, “un compagno di viaggio, un fratello più grande…”) col suo “puer aeternus” e le terapie con Ernst Bernhard, ecc.
“Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è fosforescente” (Fellini).
E anche nelle sue “visioni” profetiche: la crisi culturale e politica dell’Italia, la prevalenza della tv spazzatura (che infatti ha formattato i suoi film) con “Ginger e Fred”, il tracimare del gossip ch surroga tutto, delle fake-news e la propaganda, dell’ignoranza, la volgarità, la morte della bellezza, della poesia, dell’innocenza dello sguardo (“malinconici trastulli”, “sostanziale disfacimento”), avvolto in un cicaleccio che ci stordisce e ci aliena.
“Ecco, dottore, io vengo da lei perché vorrei tornare a essere così” (Fellini).
Pochi sanno, per dire, chi sono i cinque fratelli Spoletini, che ci fu chi una notte viaggiò da San Pietro Vernotico per portargli i taralli caldi e che “La dolce vita” fu stroncata da Rossellini (dice Fellini: “Mi ha guardato come Socrate avrebbe guardato Critone, scoprendo che l’allievo era improvvisamente impazzito”), Visconti (“Ma quelli sono i nobili visti dal mio cameriere”) e De Sica (“E’ una cafonata, il sogno di un provinciale”). Oltre che dai marxisti ortodossi e i cattolici (recensione di Oscar Luigi Scalfaro su “L’Osservatore Romano”, che decenni dopo cambierà opinione).
“Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò che dev’essere autentico è l’emozione nel vedere e nell’esprimere” (Fellini).
Un saggio che non può mancare nella libreria di chi ama il Cinema: l’arte di Fellini è immortale quanto rivoluzionaria, e sempre densa di nuove scansioni e decodificazioni. Tanto da far apparire molto cinema che è venuto dopo manierismi e citazioni. Rubbish. “Coraggio, il meglio è passato” (Flaiano).
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