VITTORIO POLITO - Un testo indiano ricorda che «Con un matrimonio legittimo una donna acquista le stesse qualità dello sposo, simile al fiume che si perde nell’oceano e, dopo la morte, è ammessa nello stesso paradiso celeste», mentre, per San Giovanni Crisostomo «È l’immagine non di qualcosa di terrestre, ma di celeste». E per Bari cosa si intendeva per matrimonio nell’undicesimo secolo? La risposta la troviamo nel testo di Armando Perotti (1865-1924), “Bari ignota” del 1907, ristampata nel 1984 da Arnaldo Forni, e si riferisce ai giovani Russone e Alfarana, appartenenti a nobili e ricche famiglie di sangue longobardo, ma baresi per nascita, raccontata in un antico latino su quattro pergamene datate 1060, esistenti nell’Archivio di San Nicola a Bari.
Uno dei documenti, il secondo, rogato dal notaio Mele e firmato da un Nicolaos greco, che sottoscrive nella sua lingua, contiene la formula del ‘morgincap’, strana parola proveniente dal diritto consuetudinario barese di origine longobarda, e che rappresentava la quarta parte dei propri beni che lo sposo contraente era tenuto a donare alla sposa dopo l’avvenuta consumazione delle nozze, validamente attestata davanti ad un notaio con l’assistenza di testimoni. Una sorta di dono mattinale ritenuto un compenso per la verginità rapita. Ma nonostante Russone e Alfarana iniziano la nuova vita, Giovanni, padre di Alfarana, tardava a consegnare a Russone gli oggetti dotali promessi alla figlia, ma messo alle strette, trascorsi alcuni anni, si procede a far stilare dal notaio Pando, l’atto di consegna, firmato da cinque notabili, fra i quali Pietro, protospatario, il cui titolo era attribuito ad alti funzionari dell’epoca.
Del ‘morgincap’ ne parla anche Vito Antonio Melchiorre (1922-2010), nel suo libro “Storie baresi” (Levante), ricordando che nel XVII secolo con una disposizione del 16 dicembre 1617, il ‘morgincap’ fu sostituito con “l’antefato”, la cui misura era determinata in proporzione all’entità del patrimonio dello sposo.
L’elenco degli oggetti è interessante per vari aspetti, tra i quali si conosce l’intimità domestica di una famiglia barese di dieci secoli fa, attraverso l’elenco degli oggetti usati in famiglia, trascritti nel latino popolare del tempo che contribuiscono preziosamente anche allo studio del dialetto barese antico.
Dal lungo elenco del corredo dotale (con accanto per ciascun oggetto il relativo valore), mi piace riportare alcuni nomi di oggetti che hanno attirato la mia curiosità: ‘gipteca’ (una sorta di giubbotto donnesco); ‘fuffude’ (forse una intera veste muliebre); ‘Basili Costantini’ (un probabile berretto costellato di monete per ostentare la ricchezza); ‘bangbadiky’ (possibile trattarsi di sottana o simile vestimento di bambagia o cotone); ‘pentareule’ (forse attaccapanni, ma non c’è certezza); ‘kankellata’ (una stoffa disegnata a riquadri?); ‘zippa’ (borsellino, velo o scialle femminile), e molti altri dei quali non si conosce esattamente il significato. Non poteva mancare il ‘coclarile’ (arnese a forma di ferro di cavallo per appendere i cucchiai); la ‘frixoria’ (padella), la ‘gávata’ (lavatoio?). E, infine, una schiava di nome Setanna, con il figlio Nicolula (Nicolino), entrambi di razza saracena. L’elenco prosegue e si completa con la descrizione dei numerosi capi di biancheria.
Alfarana, finalmente, potrà godere liberamente e per tutta la vita del notevole corredo dotale, ma in caso di morte senza figli “in età legittima”, tutto tornerà alla casa paterna compresi Setanna e Nicolino ed eventuali altri figli che la schiava avrà potuto nel frattempo mettere al mondo. Ma i figli per Alfarana e Russone (maschio e femmina) vennero.
Un quarto documento datato aprile 1068, attesta il grave stato di malattia di Russone che chiama al capezzale notai e testimoni per rilasciare le sue ultime volontà, nominando anche gli esecutori testamentari, con la condizione che «Se Alfarana custodirà castamente il mio letto, né uomo vi giacerà con lei, abbia essa l’usufrutto di tutti i miei beni, e diriga e regga, come vorrà la casa ed i figli».
La conclusione della vicenda non è data conoscerla, le antiche carte tacciono, probabilmente le loro ossa, scrive Perotti, «giacciono in qualche angolo ignoto di questa nostra città, entro un piccolo cimitero di chiesetta distrutta, sotto nuove case dove la nuova gente continua ad amare e a morire».
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