FREDERIC PASCALI - Nell’opera prima di Pietro Castellitto, per l’occasione autore del soggetto, regista, sceneggiatore e attore protagonista, si annida un’umanità incapace di abbandonare la propria arida mediocrità di sentimenti in ostaggio perenne di una tormentata ricerca interiore di altro.
Come formiche avide di briciole i personaggi si muovono in un andirivieni costante tra la realtà e le loro nevrosi, incasellati negli stereotipi sociali che essi stessi rappresentano.
Il giovane Pietro, appassionato studioso di Nietzsche, eternamente proteso verso una consacrazione universitaria relegata alla volontà del barone di turno, appartiene a una famiglia di estrazione alto borghese con la madre, Ludovica Pensa, regista di successo continuamente sull’orlo di una crisi di nervi, e il padre, Pierpaolo Pavone, medico di fama e amante della giovane moglie del suo migliore amico. A un certo momento accade che la sorte dei Pavone incrocia quella dei Vismara, una famiglia di estrazione popolana, dal tenore di vita opposto e con una solida matrice ideologica fascista. Gli effetti che ne derivano sono assolutamente imprevedibili e prorompenti.
È l’attesa la catena apparentemente infrangibile che sembra, sin da subito, attanagliare i protagonisti de “I Predatori”. Ognuno in cuor suo, consciamente e inconsciamente, appare in attesa di un evento, un’occasione in grado di dare una sterzata decisa alla propria vita sottraendola a una quotidianità nella quale non si riconosce o non si è mai riconosciuto.
In questo senso appaiono interessanti le scelte di regia di Castellitto, cui va senz’altro un plauso per la trovata originale dell’incipit iniziale, che non lesina la cornice espressiva delle inquadrature dal basso, uno dei tratti distintivi della pellicola. Nel suo cinema l’apparente ridda di personaggi e di azioni si muove in realtà verso un senso logico ben preciso, determinato dall’approssimarsi dell’incrocio del fato dei vari personaggi.
Sugli scudi gli interpreti, guidati dal convincente Castellitto, dalla brava Anita Caprioli e dall’efficace Vinicio Marchioni, seppur non sempre supportati da un lavoro sui dialoghi troppo spesso basculante tra il già sentito e l’ammiccante a tutti i costi.
Il premio per la miglior sceneggiatura, vinto nella sezione Orizzonti della scorsa Mostra del cinema di Venezia, non cancella i dubbi sulla costruzione delle sequenze finali che si rivelano piuttosto amorfe rispetto al precedente impianto narrativo.
Il giovane Pietro, appassionato studioso di Nietzsche, eternamente proteso verso una consacrazione universitaria relegata alla volontà del barone di turno, appartiene a una famiglia di estrazione alto borghese con la madre, Ludovica Pensa, regista di successo continuamente sull’orlo di una crisi di nervi, e il padre, Pierpaolo Pavone, medico di fama e amante della giovane moglie del suo migliore amico. A un certo momento accade che la sorte dei Pavone incrocia quella dei Vismara, una famiglia di estrazione popolana, dal tenore di vita opposto e con una solida matrice ideologica fascista. Gli effetti che ne derivano sono assolutamente imprevedibili e prorompenti.
È l’attesa la catena apparentemente infrangibile che sembra, sin da subito, attanagliare i protagonisti de “I Predatori”. Ognuno in cuor suo, consciamente e inconsciamente, appare in attesa di un evento, un’occasione in grado di dare una sterzata decisa alla propria vita sottraendola a una quotidianità nella quale non si riconosce o non si è mai riconosciuto.
In questo senso appaiono interessanti le scelte di regia di Castellitto, cui va senz’altro un plauso per la trovata originale dell’incipit iniziale, che non lesina la cornice espressiva delle inquadrature dal basso, uno dei tratti distintivi della pellicola. Nel suo cinema l’apparente ridda di personaggi e di azioni si muove in realtà verso un senso logico ben preciso, determinato dall’approssimarsi dell’incrocio del fato dei vari personaggi.
Sugli scudi gli interpreti, guidati dal convincente Castellitto, dalla brava Anita Caprioli e dall’efficace Vinicio Marchioni, seppur non sempre supportati da un lavoro sui dialoghi troppo spesso basculante tra il già sentito e l’ammiccante a tutti i costi.
Il premio per la miglior sceneggiatura, vinto nella sezione Orizzonti della scorsa Mostra del cinema di Venezia, non cancella i dubbi sulla costruzione delle sequenze finali che si rivelano piuttosto amorfe rispetto al precedente impianto narrativo.