FRANCESCO GRECO - Come Narciso sull’acqua, Dorian Gray allo specchio: ci guardiamo e cosa vediamo? Abbiamo costruito uno storytelling spiazzante, elusivo, auto consolatorio, auto assolutorio. Quasi trasfigurato in una nuova corrente filosofica: accanto a stoici, cinici, epicurei, scettici, i reticenti, “spensierati consumatori del presente”.
Una diserzione nell’Iperuranio del “tengo famiglia”, una fuga dalle responsabilità purtroppo ormai “cultura”, quasi archetipo, che intride i cromosomi (anche per questo, da Masaniello a Grillo, diamo retta al primo incantatore di serpenti nei paraggi). Quel “vittimismo di massa che indebolisce gli spiriti attivi di una società”: gratificante, terapeutico, ma che espone al declino, pubblico e privato.
Banale dirlo: l’apocalisse da Covid-19 sta facendo tremare orizzonti della civiltà; siamo precipitati nel provvisorio, l’incertezza, la caducità del tutto. Uno snodo epocale: a. C. (anti-Covid), d. C. (dopo-Covid), una sorta di glaciazione, di anno zero, che però può anche divenire un topos da cui osservare senza reticenze la realtà e le criticità di ieri, oggi, sempre e comporre il puzzle di una reazione, fissare su carta un po’ di analisi, illuminazioni, urla, “visioni” per la ripartenza del sistema-Paese, possibile e doverosa per noi stessi e moralmente verso “figli e nipoti” a cui non si possono rubare i sogni e il futuro, nel post-pandemia, quando la “nuttata” ce la saremo messa alle spalle e occorrerà bypassare ogni cascame da pensiero debole e ricostruire dalle macerie, materiali e interiori, “inventarsi un domani”.
E’ la modulazione del mainstream dell’ultimo saggio di Ferruccio de Bortoli, “Le cose che non ci diciamo” (fino in fondo), Garzanti, Milano 2020, pp. 160, euro 16 (Collana “Saggi”). Temi complessi, risposte articolate, viviamo nella società liquida, post-ideologica, globalizzata, atomizzata e relativizzata, in cui si assiste alla nebulizzazione di un patrimonio di valori sedimentato nel tempo, alla secolarizzazione della coscienza civile, inariditosi il collante che la teneva unita e fattasi esigua, sfuggente l’identità. Ogni orizzonte, economico, sociale, culturale, ideologico, d’improvviso ha assunto contorni vaghi. E de Bortoli (che ha diretto il “Corriere della Sera” e il “Sole 24 Ore” in tempi non meno complicati), con onestà intellettuale, da spirito libero, quindi autorevole, adotta il format di uno sguardo analitico documentato (numeri e statistiche non possono essere piegati a ideologie vecchie e nuove), mai indulgente, etica luterana della responsabilità dell’individuo, dispiega una disamina a tutto campo: tesi, antitesi, sintesi.
Abrasivo, in certi squarci aspro, crudo, ma sempre ispirato dal fuoco greco di una sana passione civile, quell’etos che irradia ogni amor patrio. Emozionanti le pagine in cui attribuisce grande importanza al logos, la formazione, la scuola, specie per le classi povere, gli “invisibili” che solo i volontari sanno stanare, le più colpite dal virus e pertanto bisognose di “anticorpi culturali”.
Struggente il passaggio in cui ricorda la Milano in b/n dell’altro secolo, nato in un quartiere popolare dove tutti a letto dopo Carosello e i patriarchi si industriavano – dna mitteleuropeo, austro-ungarico, i meridionali li ha rovinati Platone - per mettere qualcosa nel piatto ai numerosi figli, e possibilmente anche nella cartella di cartone. Un grido di dolore per la Milano anno zero di oggi, capitale economica e morale, sfregiata e offesa.
“Le verità scomode vanno dette” a un “Paese atterrito e sconvolto”, e de Bortoli non assolve nessuno della piramide sociale, il “patto” sottinteso, lo status quo: parte dal postulato che, direbbe De Andrè, “siamo tutti coinvolti”. Denuncia il darwinismo e i basic instinct in progress, destruttura gli egoismi tribali (“un aiuto sottratto a chi ha bisogno”), il cinismo dei singoli e la fame smodata delle infinite corporazioni italiettane (cosa sono i 600 euro alla nicchia dei notai incapienti se non la marchetta di una campagna elettorale peripatetica?), le caste di bramini avide di benefit, la bulimia delle lobby (“Parlamento assediato”), sempre in attesa del bonus (“stupefacente normativo”) e del ristoro (lo ignoravamo, ce n’é pure per veterinari e cassamortari, toccando ferro), sublimati in un io piegato su interessi minimalisti, di rendita, quando non parassitari, che oggettivamente rema contro il bene comune e pregiudica ogni idea di futuro perché “il debito sale”, non si crea reddito, valore aggiunto, crescita zero o quasi.
Banale dirlo: l’apocalisse da Covid-19 sta facendo tremare orizzonti della civiltà; siamo precipitati nel provvisorio, l’incertezza, la caducità del tutto. Uno snodo epocale: a. C. (anti-Covid), d. C. (dopo-Covid), una sorta di glaciazione, di anno zero, che però può anche divenire un topos da cui osservare senza reticenze la realtà e le criticità di ieri, oggi, sempre e comporre il puzzle di una reazione, fissare su carta un po’ di analisi, illuminazioni, urla, “visioni” per la ripartenza del sistema-Paese, possibile e doverosa per noi stessi e moralmente verso “figli e nipoti” a cui non si possono rubare i sogni e il futuro, nel post-pandemia, quando la “nuttata” ce la saremo messa alle spalle e occorrerà bypassare ogni cascame da pensiero debole e ricostruire dalle macerie, materiali e interiori, “inventarsi un domani”.
E’ la modulazione del mainstream dell’ultimo saggio di Ferruccio de Bortoli, “Le cose che non ci diciamo” (fino in fondo), Garzanti, Milano 2020, pp. 160, euro 16 (Collana “Saggi”). Temi complessi, risposte articolate, viviamo nella società liquida, post-ideologica, globalizzata, atomizzata e relativizzata, in cui si assiste alla nebulizzazione di un patrimonio di valori sedimentato nel tempo, alla secolarizzazione della coscienza civile, inariditosi il collante che la teneva unita e fattasi esigua, sfuggente l’identità. Ogni orizzonte, economico, sociale, culturale, ideologico, d’improvviso ha assunto contorni vaghi. E de Bortoli (che ha diretto il “Corriere della Sera” e il “Sole 24 Ore” in tempi non meno complicati), con onestà intellettuale, da spirito libero, quindi autorevole, adotta il format di uno sguardo analitico documentato (numeri e statistiche non possono essere piegati a ideologie vecchie e nuove), mai indulgente, etica luterana della responsabilità dell’individuo, dispiega una disamina a tutto campo: tesi, antitesi, sintesi.
Abrasivo, in certi squarci aspro, crudo, ma sempre ispirato dal fuoco greco di una sana passione civile, quell’etos che irradia ogni amor patrio. Emozionanti le pagine in cui attribuisce grande importanza al logos, la formazione, la scuola, specie per le classi povere, gli “invisibili” che solo i volontari sanno stanare, le più colpite dal virus e pertanto bisognose di “anticorpi culturali”.
Struggente il passaggio in cui ricorda la Milano in b/n dell’altro secolo, nato in un quartiere popolare dove tutti a letto dopo Carosello e i patriarchi si industriavano – dna mitteleuropeo, austro-ungarico, i meridionali li ha rovinati Platone - per mettere qualcosa nel piatto ai numerosi figli, e possibilmente anche nella cartella di cartone. Un grido di dolore per la Milano anno zero di oggi, capitale economica e morale, sfregiata e offesa.
“Le verità scomode vanno dette” a un “Paese atterrito e sconvolto”, e de Bortoli non assolve nessuno della piramide sociale, il “patto” sottinteso, lo status quo: parte dal postulato che, direbbe De Andrè, “siamo tutti coinvolti”. Denuncia il darwinismo e i basic instinct in progress, destruttura gli egoismi tribali (“un aiuto sottratto a chi ha bisogno”), il cinismo dei singoli e la fame smodata delle infinite corporazioni italiettane (cosa sono i 600 euro alla nicchia dei notai incapienti se non la marchetta di una campagna elettorale peripatetica?), le caste di bramini avide di benefit, la bulimia delle lobby (“Parlamento assediato”), sempre in attesa del bonus (“stupefacente normativo”) e del ristoro (lo ignoravamo, ce n’é pure per veterinari e cassamortari, toccando ferro), sublimati in un io piegato su interessi minimalisti, di rendita, quando non parassitari, che oggettivamente rema contro il bene comune e pregiudica ogni idea di futuro perché “il debito sale”, non si crea reddito, valore aggiunto, crescita zero o quasi.
Smonta poi le leggende metropolitane proliferate in questi tempi ispidi, tese a procacciare consenso al limite del voto di scambio e i cui costi – tutti in deficit - si scaricheranno sulle generazioni future (che il Papa esorta a sognare in grande, a volare alto).
A cominciare dall’invasione che non c’è, come la famosa isola, a “Quota 100” (la risposta alla legge-Fornero, pura schizofrenia). E poi il sarchiapone del reddito di cittadinanza, divenuto sterile assistenzialismo: risorse al vento, “soldi a pioggia per trovare un consenso immediato”, con l’atout bizantino dei navigator che aiutano a trovare un lavoro che non c’è, a spese del contribuente del 2030, ovvio.
Fa poi abbattere la supercazzola dello smart working da Pietro Ichino (nel pubblico impiego “una vacanza pagata”), ma si capisce che il suo “like” è in stand-by sui pixel. Il lavoro diventa quasi “mistico” provocando “alienazione, solitudine, senso di estraneità”, e claustrofobia. La didattica a distanza poi crea ulteriore marginalità, crescono bambini in “povertà educativa”. Intanto aumentano droghe, alcol e antidepressivi, cala ex abrupto l’aspettativa di vita: a falangi stiamo slittando dalla povertà relativa a quella assoluta, ripiegati su noi stessi.
Della classe politica che ci siam dati de Bortoli non ha grande stima (non ci vuole molto, la letteratura è da Wikipedia), perduta nel particulare guicciardinano, non guarda all’universale. Petulante nella comunicazione crassa, cocciuta nella propaganda e nel marketing spudorato Wanna Marchi style, in certi passaggi incolta e disinformata, avida (arraffa il malloppo del Cura Italia e Rilancio). Dalla viceministro Castelli che a Padoan sibila sprezzante: “Questo lo dice lei”, a Salvini e Conte che delirano sul Pil e sui soldi dell’ennesimo decreto da finanza creativa. Dioscuri di un declino ontologico, multitasking, irreversibile. Sempre dietro la lavagna UE. Inclusa la signora Raggi, che dell’Atac pensa che “non deve guadagnare” (infatti è in rosso fisso). Sino al Pd fermo ancora a Keynes, che nello Stato vede il messia, sdraiato (“allineamento, in parte tattico”) sul divano del Rdc, preda dei fumi dei deliri populisti dei 5 Stelle ormai nel gorgo di un’eutanasia esponenziale (dal “Vaffa” alla von der Leyen, parabole italiane). In un mondo in cui le comparse vanno all’Actor’s Studio, i nostri protagonisti sono da dopolavoro ferroviario.
“Complessivamente più poveri”, “tasso di natalità che precipita”, mentre cresce l’abbandono scolastico (14,5%) e i Neet (fancazzisti) a 50 anni aspettano. Temi scagliati nel futuro: “salute, ambiente, lotta all’inquinamento, infrastrutture, digitalizzazione, nuove fonti energetiche, sicurezza… spuntare le ali al potere della burocrazia…”.
In un Paese di vecchi e malati, grande importanza il direttore poi dà al “capitale umano” specificando “di qualità”, che accredita di resilienza: quel poco avanzato dalle “fughe” (siamo così masochisti da formarlo e regalarlo a Londra, Parigi, Berlino, Barcellona, Sidney, ecc.), in una Nazione che può essere letta come un’immensa Rsa, quasi un lazzaretto, un Re messo a nudo dall’infido virus, e che pure fu una grande potenza e oggi è “a rischio default”, anche con i 4 milioni di italiani a rischio di perdita del lavoro e del senso della vita.
De Bortoli sdraia il paziente Italia sul lettino e lo aiuta a far emergere iceberg vecchi e nuovi, quasi cristallizzati nel dna. Lo convince che il “cambio di paradigma”, “reinventarsi un futuro”, un nuovo “miracolo economico” sono possibili a patto di rimuovere fatalismo e rassegnazione, ritrovando il senso della solidarietà, “un po’ più di umanità”. E’ convinto e ci convince che l’ascensore sociale può riprendere a funzionare, lo studio prevalere, il merito essere premiato: importante è avere, ammonisce “tenacia, fantasia, visione”, e ancora “fame, voglia di riscatto”.
Privo di indulgenze e barocchismi, il saggio ha un ritmo incalzante, il pregio della chiarezza e l’essenzialità divulgativa, senza toni tonitruanti (direbbe Montanelli), da palingenesi: doti dei grandi giornalisti (de Bortoli fra le righe riconosce in lui e Biagi due grandi che lo hanno “contagiato”).
Se si cercava un “breviario” (per dirla con Matvejevic) per un nuovo Rinascimento (“riveder le stelle”, Dante) dopo la peste nera, eccolo. Incombe, spiega ancora de Bortoli, #il tempo della responsabilità, quelli che padre Turoldo definì “i giorni del rischio”: ritrovare il senso di appartenenza, il valore della comunità (“non ci si salva da soli”), “sprigionare nuove energie, soprattutto morali”: non possiamo passare la vita tra “sfiducia e disincanto”, da cicale in monopattino che consumano il futuro e fingono di ignorare che le risorse europee “sono prese in prestito dai nostri figli e dai nostri nipoti”, basta indugiare coi brufoli di un Peter Pan che non vuol crescere.
I nostri nonni sfuggiti ai gas austriaci e i padri ai vagoni piombati diretti ad Auschwitz ce l’hanno fatta, e con dignità. Come dicono i saggi orientali, ogni fine può essere un nuovo inizio e una criticità divenire una risorsa.
Ma, in cerca di un mantra condiviso, una koinè comune, un Santo Graal, il vello d’oro, un popolo, dice de Bortoli, analfabeta in economia e finanza (ma anche in Storia siamo da matita blu, sennò non ci perderemmo dietro a infide e pericolose nostalgie, opzioni inquietanti dettate anche dalle “tossine oscure del risentimento sociale”); che lesina i denari a innovazione, ricerca, istruzione, cultura, che non ama il mercato (ma chi lo affronta lo conquista), che crede il denaro lo sterco del demonio, flirta con la cultura anti-industriale e la decresciuta, che pensa felice perché non crea reddito, consumi, futuro; sospetta di quella scientifica (no-vax e dintorni) come se il Medioevo di santi taumaturghi, badesse in calore e intrugli di fattucchiere non fosse finito e i Lumi mai accesi. Dall’autostima scarsa, che coltiva la furbizia gabellandola per intelligenza (in cig andiamo a lavorare) e una classe politica di scoppiati scappati di casa, supponente e autoreferenziale, buona per la ruota della fortuna e rischiatutto, che confonde il congiuntivo con la congiuntivite e la Libia col Libano, crede che l’aumento di produttività non porta lavoro, riempie imbuti in spregio ai princìpi della Fisica e scrive libri che ritira subito dai banconi, spasso delle cancellerie, ne terrà conto?
In ogni modo, dice infine il direttore, il futuro è già qui con le sue sfide micro meso macro e perseverare nei vizi privati e pubblici del nostro dna sarebbe diabolico, oltre che suicida.
A cominciare dall’invasione che non c’è, come la famosa isola, a “Quota 100” (la risposta alla legge-Fornero, pura schizofrenia). E poi il sarchiapone del reddito di cittadinanza, divenuto sterile assistenzialismo: risorse al vento, “soldi a pioggia per trovare un consenso immediato”, con l’atout bizantino dei navigator che aiutano a trovare un lavoro che non c’è, a spese del contribuente del 2030, ovvio.
Fa poi abbattere la supercazzola dello smart working da Pietro Ichino (nel pubblico impiego “una vacanza pagata”), ma si capisce che il suo “like” è in stand-by sui pixel. Il lavoro diventa quasi “mistico” provocando “alienazione, solitudine, senso di estraneità”, e claustrofobia. La didattica a distanza poi crea ulteriore marginalità, crescono bambini in “povertà educativa”. Intanto aumentano droghe, alcol e antidepressivi, cala ex abrupto l’aspettativa di vita: a falangi stiamo slittando dalla povertà relativa a quella assoluta, ripiegati su noi stessi.
Della classe politica che ci siam dati de Bortoli non ha grande stima (non ci vuole molto, la letteratura è da Wikipedia), perduta nel particulare guicciardinano, non guarda all’universale. Petulante nella comunicazione crassa, cocciuta nella propaganda e nel marketing spudorato Wanna Marchi style, in certi passaggi incolta e disinformata, avida (arraffa il malloppo del Cura Italia e Rilancio). Dalla viceministro Castelli che a Padoan sibila sprezzante: “Questo lo dice lei”, a Salvini e Conte che delirano sul Pil e sui soldi dell’ennesimo decreto da finanza creativa. Dioscuri di un declino ontologico, multitasking, irreversibile. Sempre dietro la lavagna UE. Inclusa la signora Raggi, che dell’Atac pensa che “non deve guadagnare” (infatti è in rosso fisso). Sino al Pd fermo ancora a Keynes, che nello Stato vede il messia, sdraiato (“allineamento, in parte tattico”) sul divano del Rdc, preda dei fumi dei deliri populisti dei 5 Stelle ormai nel gorgo di un’eutanasia esponenziale (dal “Vaffa” alla von der Leyen, parabole italiane). In un mondo in cui le comparse vanno all’Actor’s Studio, i nostri protagonisti sono da dopolavoro ferroviario.
“Complessivamente più poveri”, “tasso di natalità che precipita”, mentre cresce l’abbandono scolastico (14,5%) e i Neet (fancazzisti) a 50 anni aspettano. Temi scagliati nel futuro: “salute, ambiente, lotta all’inquinamento, infrastrutture, digitalizzazione, nuove fonti energetiche, sicurezza… spuntare le ali al potere della burocrazia…”.
In un Paese di vecchi e malati, grande importanza il direttore poi dà al “capitale umano” specificando “di qualità”, che accredita di resilienza: quel poco avanzato dalle “fughe” (siamo così masochisti da formarlo e regalarlo a Londra, Parigi, Berlino, Barcellona, Sidney, ecc.), in una Nazione che può essere letta come un’immensa Rsa, quasi un lazzaretto, un Re messo a nudo dall’infido virus, e che pure fu una grande potenza e oggi è “a rischio default”, anche con i 4 milioni di italiani a rischio di perdita del lavoro e del senso della vita.
De Bortoli sdraia il paziente Italia sul lettino e lo aiuta a far emergere iceberg vecchi e nuovi, quasi cristallizzati nel dna. Lo convince che il “cambio di paradigma”, “reinventarsi un futuro”, un nuovo “miracolo economico” sono possibili a patto di rimuovere fatalismo e rassegnazione, ritrovando il senso della solidarietà, “un po’ più di umanità”. E’ convinto e ci convince che l’ascensore sociale può riprendere a funzionare, lo studio prevalere, il merito essere premiato: importante è avere, ammonisce “tenacia, fantasia, visione”, e ancora “fame, voglia di riscatto”.
Privo di indulgenze e barocchismi, il saggio ha un ritmo incalzante, il pregio della chiarezza e l’essenzialità divulgativa, senza toni tonitruanti (direbbe Montanelli), da palingenesi: doti dei grandi giornalisti (de Bortoli fra le righe riconosce in lui e Biagi due grandi che lo hanno “contagiato”).
Se si cercava un “breviario” (per dirla con Matvejevic) per un nuovo Rinascimento (“riveder le stelle”, Dante) dopo la peste nera, eccolo. Incombe, spiega ancora de Bortoli, #il tempo della responsabilità, quelli che padre Turoldo definì “i giorni del rischio”: ritrovare il senso di appartenenza, il valore della comunità (“non ci si salva da soli”), “sprigionare nuove energie, soprattutto morali”: non possiamo passare la vita tra “sfiducia e disincanto”, da cicale in monopattino che consumano il futuro e fingono di ignorare che le risorse europee “sono prese in prestito dai nostri figli e dai nostri nipoti”, basta indugiare coi brufoli di un Peter Pan che non vuol crescere.
I nostri nonni sfuggiti ai gas austriaci e i padri ai vagoni piombati diretti ad Auschwitz ce l’hanno fatta, e con dignità. Come dicono i saggi orientali, ogni fine può essere un nuovo inizio e una criticità divenire una risorsa.
Ma, in cerca di un mantra condiviso, una koinè comune, un Santo Graal, il vello d’oro, un popolo, dice de Bortoli, analfabeta in economia e finanza (ma anche in Storia siamo da matita blu, sennò non ci perderemmo dietro a infide e pericolose nostalgie, opzioni inquietanti dettate anche dalle “tossine oscure del risentimento sociale”); che lesina i denari a innovazione, ricerca, istruzione, cultura, che non ama il mercato (ma chi lo affronta lo conquista), che crede il denaro lo sterco del demonio, flirta con la cultura anti-industriale e la decresciuta, che pensa felice perché non crea reddito, consumi, futuro; sospetta di quella scientifica (no-vax e dintorni) come se il Medioevo di santi taumaturghi, badesse in calore e intrugli di fattucchiere non fosse finito e i Lumi mai accesi. Dall’autostima scarsa, che coltiva la furbizia gabellandola per intelligenza (in cig andiamo a lavorare) e una classe politica di scoppiati scappati di casa, supponente e autoreferenziale, buona per la ruota della fortuna e rischiatutto, che confonde il congiuntivo con la congiuntivite e la Libia col Libano, crede che l’aumento di produttività non porta lavoro, riempie imbuti in spregio ai princìpi della Fisica e scrive libri che ritira subito dai banconi, spasso delle cancellerie, ne terrà conto?
In ogni modo, dice infine il direttore, il futuro è già qui con le sue sfide micro meso macro e perseverare nei vizi privati e pubblici del nostro dna sarebbe diabolico, oltre che suicida.