BARI - Il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, a seguito delle notizie di stampa sulla avvenuta firma dell’accordo tra Governo italiano, Invitalia e Arcelor Mittal, dichiara quanto segue:
“Tutta la maggioranza di governo della Regione Puglia da me consultata oggi pomeriggio in apposita conferenza dei capigruppo, alla quale hanno partecipato PD, Con Emiliano, Popolari con Emiliano, cui si è aggiunta la capogruppo del M5S, in coerenza con le linee linee programmatiche di recente approvate dal Consiglio Regionale della Puglia, esprime il proprio netto dissenso sul contenuto dell’accordo ArcelorMittal, Invitalia, Governo italiano avente ad oggetto il gruppo Ilva", dichiara Emiliano.
"Un accordo - prosegue - che non tutela la salute dei tarantini e il nostro ambiente. Abbiamo oggi appreso solo dalla stampa che lo Stato italiano è diventato nuovamente socio, questa volta al 50%, di una delle più importanti acciaierie europee avente sede a Taranto, dalla cui proprietà al 100% era uscito nel 1995. L'Accordo tra Invitalia e Mittal non è noto e le informazioni a nostra disposizione sono scarne e frammentarie. Appare, tuttavia, evidente che l'accordo è avvenuto nel solco di un piano industriale che, confermando o addirittura rilanciando la tecnologia tradizionale che ha caratterizzato la fabbrica di Taranto dalla sua costituzione ad oggi, appare anacronistico e assolutamente fuori dal perimetro di decarbonizzazione che è stato per anni oggetto di discussione ed approfondimento. La sola idea che il raggiungimento di una produzione industriale vicina alle 6 milioni di tonnellate di acciaio, passi attraverso la ricostruzione degli altiforni, ed in particolare di AFO 5, genera sgomento. Ricostruire il più grande altoforno d’Europa con la tecnologia a ciclo integrato a carbon coke significa continuare ad inquinare l’80% in più rispetto alle tecnologie con le quali si attua la decarbonizzazione totale della fabbrica. È una scelta incongrua, datata, utile esclusivamente ad avvicinare la fabbrica ad una ipotesi di presunta redditività che, però, dovrà essere comunque garantita dai soldi pubblici a sostegno della massiccia cassa integrazione attuata da ArcelorMittal attuale affittuario di un ramo d’azienda. Redditività che, ricordiamolo tutti, si basa sulla condivisione, o meglio sullo scarico totale al sistema pubblico, di tutti i danni di natura ambientale e sanitaria che quella fabbrica ha generato e genererà ancora per anni. Sconvolge che l'accordo venga siglato contemporaneamente ai decisivi passi che l'Unione europea ha compiuto con il programma Next Generation. Firmando l’accordo di stanotte l'Italia saluta questo importante traguardo offrendo al mondo una prospettiva industriale del secolo scorso, in cui le next generations subiranno il peso ambientale, sociale e finanziario di una scelta scellerata. Abbiamo offerto con lealtà e perseveranza al Governo l'opportunità di confrontarci su un tavolo tecnico, dove avremmo portato un contributo che deriva non solo dai nostri approfondimenti tecnico/finanziari, ma dalla lettura della realtà rappresentata dall'evoluzione in atto nell'industria pesante in tutto il mondo. Davanti alle evidenze che portiamo, relative alla concreta possibilità di operare una transizione verso tecnologie pienamente eco-compatibili, che partano dal gas e raggiungano l'idrogeno, ci viene eccepito che si tratta di tecnologie troppo costose e non profittevoli. Nonostante i cittadini italiani stiano da anni mantenendo con le proprie tasse un’azienda tecnicamente improduttiva, asseritamente strategica. Da anni gli italiani offrono, senza rendersene conto, un contributo finanziario determinante per la sopravvivenza della fabbrica, nonostante la fabbrica uccida, inquini, faccia ammalare, allontani altri investimenti industriali e turistici. E questo già oggi, in costanza della presenza di un investitore privato. Si è deciso, senza un dibattito pubblico o istituzionale, che la produzione dell'acciaio è una prerogativa irrinunciabile del nostro Paese, e che non è necessario che quella produzione avvenga in maniera rispettosa della vita delle persone e della tutela dell'ambiente. E decidere di non farlo mentre i pilastri della programmazione comunitaria vengono orientati verso la finanziabilità di investimenti che garantiscano la transizione green dell'industria europea, anche in deroga alle norme sulla concorrenza e gli aiuti di Stato, è una scelta incomprensibile. L’Italia e Taranto non potranno godere degli aiuti europei che servono a rendere green le acciaierie e sarà lo Stato, con i nostri soldi, a ricostruire il mostruoso altoforno 5 a carbone. Non serve essere dei geni dell'industria per comprendere che ammesso che una tecnologia abbia costi di gestione più alti, il prezzo finale del prodotto risentirà comunque più che positivamente dal fatto che gli investimenti per realizzare il processo industriale sono stati concessi a fondo perduto. È pazzesco che gli aiuti di stato italiani ricostruiscano tecnologia non green, non decarbonizzata, facendo cadere, miseramente, il velo della convenienza di adeguamenti industriali moderni e ambientalmente compatibili. Un’ultima considerazione. L'accordo firmato mette lo Stato di fronte alla responsabilità di garantire che il piano industriale allegato all'Accordo, venga totalmente realizzato (autorizzato, finanziato, posto in essere). Solo che da ieri, lo Stato ha deciso di affrontare questo obbligo da socio. La conseguenza dell'eventuale (e da noi auspicata), impossibilità di realizzare il piano consentirà a Mittal di liberarsi dei suoi obblighi probabilmente in danno del socio. Un vero capolavoro politico e in diritto”, conclude Emiliano.
"Un accordo - prosegue - che non tutela la salute dei tarantini e il nostro ambiente. Abbiamo oggi appreso solo dalla stampa che lo Stato italiano è diventato nuovamente socio, questa volta al 50%, di una delle più importanti acciaierie europee avente sede a Taranto, dalla cui proprietà al 100% era uscito nel 1995. L'Accordo tra Invitalia e Mittal non è noto e le informazioni a nostra disposizione sono scarne e frammentarie. Appare, tuttavia, evidente che l'accordo è avvenuto nel solco di un piano industriale che, confermando o addirittura rilanciando la tecnologia tradizionale che ha caratterizzato la fabbrica di Taranto dalla sua costituzione ad oggi, appare anacronistico e assolutamente fuori dal perimetro di decarbonizzazione che è stato per anni oggetto di discussione ed approfondimento. La sola idea che il raggiungimento di una produzione industriale vicina alle 6 milioni di tonnellate di acciaio, passi attraverso la ricostruzione degli altiforni, ed in particolare di AFO 5, genera sgomento. Ricostruire il più grande altoforno d’Europa con la tecnologia a ciclo integrato a carbon coke significa continuare ad inquinare l’80% in più rispetto alle tecnologie con le quali si attua la decarbonizzazione totale della fabbrica. È una scelta incongrua, datata, utile esclusivamente ad avvicinare la fabbrica ad una ipotesi di presunta redditività che, però, dovrà essere comunque garantita dai soldi pubblici a sostegno della massiccia cassa integrazione attuata da ArcelorMittal attuale affittuario di un ramo d’azienda. Redditività che, ricordiamolo tutti, si basa sulla condivisione, o meglio sullo scarico totale al sistema pubblico, di tutti i danni di natura ambientale e sanitaria che quella fabbrica ha generato e genererà ancora per anni. Sconvolge che l'accordo venga siglato contemporaneamente ai decisivi passi che l'Unione europea ha compiuto con il programma Next Generation. Firmando l’accordo di stanotte l'Italia saluta questo importante traguardo offrendo al mondo una prospettiva industriale del secolo scorso, in cui le next generations subiranno il peso ambientale, sociale e finanziario di una scelta scellerata. Abbiamo offerto con lealtà e perseveranza al Governo l'opportunità di confrontarci su un tavolo tecnico, dove avremmo portato un contributo che deriva non solo dai nostri approfondimenti tecnico/finanziari, ma dalla lettura della realtà rappresentata dall'evoluzione in atto nell'industria pesante in tutto il mondo. Davanti alle evidenze che portiamo, relative alla concreta possibilità di operare una transizione verso tecnologie pienamente eco-compatibili, che partano dal gas e raggiungano l'idrogeno, ci viene eccepito che si tratta di tecnologie troppo costose e non profittevoli. Nonostante i cittadini italiani stiano da anni mantenendo con le proprie tasse un’azienda tecnicamente improduttiva, asseritamente strategica. Da anni gli italiani offrono, senza rendersene conto, un contributo finanziario determinante per la sopravvivenza della fabbrica, nonostante la fabbrica uccida, inquini, faccia ammalare, allontani altri investimenti industriali e turistici. E questo già oggi, in costanza della presenza di un investitore privato. Si è deciso, senza un dibattito pubblico o istituzionale, che la produzione dell'acciaio è una prerogativa irrinunciabile del nostro Paese, e che non è necessario che quella produzione avvenga in maniera rispettosa della vita delle persone e della tutela dell'ambiente. E decidere di non farlo mentre i pilastri della programmazione comunitaria vengono orientati verso la finanziabilità di investimenti che garantiscano la transizione green dell'industria europea, anche in deroga alle norme sulla concorrenza e gli aiuti di Stato, è una scelta incomprensibile. L’Italia e Taranto non potranno godere degli aiuti europei che servono a rendere green le acciaierie e sarà lo Stato, con i nostri soldi, a ricostruire il mostruoso altoforno 5 a carbone. Non serve essere dei geni dell'industria per comprendere che ammesso che una tecnologia abbia costi di gestione più alti, il prezzo finale del prodotto risentirà comunque più che positivamente dal fatto che gli investimenti per realizzare il processo industriale sono stati concessi a fondo perduto. È pazzesco che gli aiuti di stato italiani ricostruiscano tecnologia non green, non decarbonizzata, facendo cadere, miseramente, il velo della convenienza di adeguamenti industriali moderni e ambientalmente compatibili. Un’ultima considerazione. L'accordo firmato mette lo Stato di fronte alla responsabilità di garantire che il piano industriale allegato all'Accordo, venga totalmente realizzato (autorizzato, finanziato, posto in essere). Solo che da ieri, lo Stato ha deciso di affrontare questo obbligo da socio. La conseguenza dell'eventuale (e da noi auspicata), impossibilità di realizzare il piano consentirà a Mittal di liberarsi dei suoi obblighi probabilmente in danno del socio. Un vero capolavoro politico e in diritto”, conclude Emiliano.