FREDERIC PASCALI - Tra tutte le pellicole uscite nel funesto, e appena terminato, anno 2020, quella diretta impeccabilmente da David Fincher merita senz’altro di essere collocata nella bacheca riservata alle opere di maggiore qualità.
Per l’impresa la regia si avvale di alcuni complici di grande talento determinanti per il risultato finale.
Il più importante tra essi è senza dubbio l’immarcescibile Gary Oldman, l’interprete principale che veste con un’accuratezza speciale i panni di Hermann J. Mankiewicz, il protagonista della pellicola nonché lo sceneggiatore, insieme a Orson Wells, di “Quarto Potere”(“Citizen Kane”), il film che a entrambi valse l’Oscar del 1942 lasciando un’impronta indelebile sia nella carriera di Wells che nella storia del cinema.
È proprio il lavoro preparatorio di scrittura con le sue diatribe, difficoltà, riferimenti al reale, alla vita di Hearst, il magnate dei media, e la contesa finale tra Mankiewicz e Wells, che si erge a protagonista principale di un’opera che, pur basando sui dialoghi le fondamenta del suo complesso incedere, fugge via senza indolenzimenti o prefigurate pause.
Alla causa contribuisce in maniera importante anche la fotografia di Erik Messerschmidt che gestisce da par suo le sfumature di luci ed ombre di un bianco e nero old style, rivestimento di gran fascino dell’intero racconto, ideale per rievocare le atmosfere della Hollywood degli anni ‘30.
Nonostante alcune parti del biopic diretto da Fincher siano spudoratamente inventate, la sceneggiatura, estremamente brillante e congeniale, scritta a suo tempo dal padre Jack, rende credibile l’intero flusso narrativo con l’alternanza tra flashback e flashforward perfetta nel preservarne la potenza espressiva.
Detto della consueta eccelsa bravura di Oldman non si può non sottolineare la prova dell’intero cast con un insieme di attori e caratteristi di assoluto valore.
Tra i tanti meritano sicuramente una citazione Amanda Seyfried, nelle vesti di Marion Davies, Lily Collins in quelli di Rita Alexander e Charles Dance nelle sembianze di William Randolph Hearst.
Per l’impresa la regia si avvale di alcuni complici di grande talento determinanti per il risultato finale.
Il più importante tra essi è senza dubbio l’immarcescibile Gary Oldman, l’interprete principale che veste con un’accuratezza speciale i panni di Hermann J. Mankiewicz, il protagonista della pellicola nonché lo sceneggiatore, insieme a Orson Wells, di “Quarto Potere”(“Citizen Kane”), il film che a entrambi valse l’Oscar del 1942 lasciando un’impronta indelebile sia nella carriera di Wells che nella storia del cinema.
È proprio il lavoro preparatorio di scrittura con le sue diatribe, difficoltà, riferimenti al reale, alla vita di Hearst, il magnate dei media, e la contesa finale tra Mankiewicz e Wells, che si erge a protagonista principale di un’opera che, pur basando sui dialoghi le fondamenta del suo complesso incedere, fugge via senza indolenzimenti o prefigurate pause.
Alla causa contribuisce in maniera importante anche la fotografia di Erik Messerschmidt che gestisce da par suo le sfumature di luci ed ombre di un bianco e nero old style, rivestimento di gran fascino dell’intero racconto, ideale per rievocare le atmosfere della Hollywood degli anni ‘30.
Nonostante alcune parti del biopic diretto da Fincher siano spudoratamente inventate, la sceneggiatura, estremamente brillante e congeniale, scritta a suo tempo dal padre Jack, rende credibile l’intero flusso narrativo con l’alternanza tra flashback e flashforward perfetta nel preservarne la potenza espressiva.
Detto della consueta eccelsa bravura di Oldman non si può non sottolineare la prova dell’intero cast con un insieme di attori e caratteristi di assoluto valore.
Tra i tanti meritano sicuramente una citazione Amanda Seyfried, nelle vesti di Marion Davies, Lily Collins in quelli di Rita Alexander e Charles Dance nelle sembianze di William Randolph Hearst.