VINCENZO NICOLA CASULLI - Non integra il reato di "false dichiarazioni del privato in atto pubblico" le dichiarazioni mendaci contenute nella autocertificazione con cui si giustificano i propri spostamenti in violazione dei divieti imposti dalla normativa Covid. Il fatto non sussiste e non potrebbe proprio mai essere reato, secondo quanto argomentato dal Giudice dott.ssa Alessandra Del Corvo nella motivazione dell’assoluzione in rito abbreviato del commesso di un negozio che, durante un controllo in stazione ferroviaria, aveva autocertificato un motivo (transito dal lavoro a casa) poi non confermato dalla verifica dei turni.
L'impossibilità di ricondurre questa falsità nell’alveo dell'art. 483 c.p., che sanziona fino a 2 anni la falsa attestazione al pubblico ufficiale di "fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità", discende dal fatto che la norma non prevede un generale obbligo di veridicità nelle attestazioni che il privato fa al pubblico ufficiale, ma pretende che la documentazione pubblica dell’attestazione del privato abbia una specifica rilevanza giuridica.
Al contrario, scrive la giudice, "in tutti i casi nei quali l’autodichiarazione infedele è resa dal privato in un controllo casuale sul rispetto della normativa Covid, appare difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire con tutte le necessarie e previste conseguenze di legge".
Infatti "non è rinvenibile nel sistema una norma che ricolleghi specifici effetti a uno specifico atto-documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale". Anche perché, altrimenti, "un obbligo di riferire la verità sui fatti dell’autodichiarazione sarebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (art. 24 Cost.) e con il principio per cui nessuno è obbligato ad autoincriminarsi".
L'impossibilità di ricondurre questa falsità nell’alveo dell'art. 483 c.p., che sanziona fino a 2 anni la falsa attestazione al pubblico ufficiale di "fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità", discende dal fatto che la norma non prevede un generale obbligo di veridicità nelle attestazioni che il privato fa al pubblico ufficiale, ma pretende che la documentazione pubblica dell’attestazione del privato abbia una specifica rilevanza giuridica.
Al contrario, scrive la giudice, "in tutti i casi nei quali l’autodichiarazione infedele è resa dal privato in un controllo casuale sul rispetto della normativa Covid, appare difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire con tutte le necessarie e previste conseguenze di legge".
Infatti "non è rinvenibile nel sistema una norma che ricolleghi specifici effetti a uno specifico atto-documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale". Anche perché, altrimenti, "un obbligo di riferire la verità sui fatti dell’autodichiarazione sarebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (art. 24 Cost.) e con il principio per cui nessuno è obbligato ad autoincriminarsi".