LIVALCA - Nella preghiera dello «Stabat Mater», che comunemente viene attribuita a Jacopone da Todi, la Madre Addolorata aveva già rintracciato il Figlio, mentre nella leggenda, che ora vi esporrò, lo cercava disperatamente nei giorni della Passione. La Madre perlustrava il territorio sconsolatamente per rintracciare il Figlio e spesso subiva ‘soprusi’ e temeva che la stessa sorte potesse capitare anche a suo figlio, per cui non si non si fidava più di nessuno.
Un giorno mentre si trovava a percorrere una via isolata, in agro di Carbonara di Bari, vide avvicinarsi un gruppo di persone che dal modo di procedere ritenne essere ostili.
Dopo aver fatto mente locale, riflettuto se allontanarsi o affrontarli, notò alla propria destra uno splendido, grande albero di olivo (o ulivo secondo le simpatie…vocali). Quasi istintivamente, guidata da una forza superiore, si arrampicò sull’albero e, mentre cercava di nascondersi, dalla sua bocca uscì un suono lieve e pur chiaro: RIPARAMI OLIVO. Per incanto l’olivo si chiuse come un fascio (la parola calzante sarebbe ombrello, ma non ci siamo con i tempi…) e i presunti malintenzionati, avendo superata la pianta, continuarono il loro bighellonare. Scampata la minaccia la Madre scese dalla pianta, che si era riaperta riacquistando l’originale sembianza, e non poté fare a meno di invocare con una preghiera l’Eterno per una benedizione particolare per quel fusto intelligente. Da quel momento la pianta arborea della famiglia delle oleacee divenne millenaria e con la foglia sempre di un colore verdeazzurro, che per comodità ‘storica’ è stata tramandata come sempreverde.
Una delle tante leggende fiorite nei 1205 ettari dell’estensione del territorio di Carbonara, che non dimentichiamolo dal 26 gennaio 1970 è un quartiere di Bari, recita che dove la Madre Addolorata si nascose sia nata una particolare oliva che ha preso il nome di ogliarola barese, ma in effetti era ‘ogliarola carnarese’. Vito Antonio Melchiorre nel suo volume «Note storiche su Bari» (Levante editori, Bari, 2001, pp. 330, ill.), dopo aver prospettato varie ipotesi sulle origini del nome Carbonara, propende per ‘carvonario’, roccia del fosso, perché le costruzioni risultavano scavate nella roccia per una questione di difesa. Lo studioso, di solito molto prudente nel proporre ‘novità ’ senza l’ausilio di ‘carte parlanti’, cita la popolazione locale che con ‘l’espressione dietro il fosso’ designa i ruderi del vecchio castello, l’attuale piazza Castello. Melchiorre propone una testimonianza di Antonio Beatillo, da cui risulterebbe l’esistenza del castello fin dal 1117 con un monastero e una chiesa sotterranea vicina. Va inoltre precisato che dalla visione di alcune pergamene risultano citati cognomi che potrebbero aver pilotato il nome Carbonara, tipo dominus Matheus de Carbonaria. Sotto l’occupazione francese (1806-1815) Carbonara, libera dalla servitù feudale, divenne autonoma e vi rimase fino al decreto del 1928, quando unita a Ceglie del Campo, formò una frazione unica. Nel 1953 furono di nuovo scisse in due frazioni, fino al 1970 di cui sopra.
Per onore di cronaca, non leggenda, va precisato che sia Beatillo che Emanuele Mola erano favorevoli a far discendere Carbonara dalla parola greca kar (avventuriero) e bon (contadino), perché di quel genere era composto il nucleo della gente che vi viveva (erano persone umili che lavoravano per pochi, ma molto facoltosi possidenti).
In quel famoso posto in agro di Carbonara in cui, sempre secondo la leggenda, è nata l’oliva ogliarola, ai piedi della pianta fiorisce una oleifera appartenente alla famiglia delle brassicacee, coltivata per il seme da cui si ricava l’olio: colza il suo nome, ricca di fiori gialli, raramente bianchi, che prendono corpo in un mese ( Tralascio il discorso sulla nocività per l’uomo dell’olio di colza e non vi racconto neppure la storiella di Mitrade re del Ponto, che, sotto il controllo del suo medico curante, assumeva ogni giorno piccole dosi di veleno in modo da diventarne immune nel timore che qualche suo suddito volesse intossicarlo : morale piccole dosi di tutto non fanno male). Pensate perfino uno studioso del livello del professore Luigi Sada (da me conosciuto personalmente e frequentato assiduamente da ragazzo, poi ci siamo ‘separati in casa’ nel senso che negli ultimi anni mi telefonava - cosa che non ho mai riferito a mio padre - e le vecchie incomprensioni hanno lasciato il campo a quella stima che non deve mai mancare, pur negli errori che la vita ‘costringe’ a commettere. Caro Gino sono corretto come sempre anche nel riferire i fatti, ma la ragione resta da una parte).
Sada nei suoi famosi libretti di ‘cucina pugliese povera’ si occupa di un primo di ‘colerizz-e-ppaste’ in cui loda un erbaggio, definendolo saporitissimo, che in sostanza è la colza, aggiungendo coltivato soltanto in agro di Carbonara. Il piatto, praticamente, è a base di colza lessa, con olio di oliva soffritto, con pasta fatta in casa e aggiunta di bietolina e fave passate. Per completare il cerchio bisogna precisare che questo piatto potete gustarlo solo a Carbonara presso la famosa e gloriosa «LA TABERNA» di Maria e Filippo Carella. Tanto per non farci mancare le stranezze-stravaganze della vita, la famiglia Carella per preparare i suoi succulenti primi si avvale di prodotti coltivati in una estensione di terra che, da generazioni, appartiene alla loro progenie. Proprio la stessa terra e la stessa pianta di olive da cui è partita la nostra leggenda che vede protagonista Maria Maddalena.Per di più ora vi proporrò la ricetta del ‘panecuètte’ (piatto da me gustato fin da ragazzo dai miei cugini Pacilli a San Nicandro Garganico e che era opera di zia Marietta, sorella di mia nonna paterna, che non sprecava niente e che era parca di consigli che oggi sarebbe opportuno rispolverare per non sciupare il cibo) in cui Luigi Sada per elencarla dice testualmente :« Ve lo descrivo parafrasando l’inno che Pasquale Soccio gli ha sciolto».
«La massaia, canestro al braccio, si avvia svagatamente per i campi in cerca di erbette più svariate, aromatiche e spontanee, quali i sapidi caccia lepri, i ruvidi crispigni, l’aspra borragine, l’acuta rughetta, i teneri finocchietti, le amare cicoriette e i morbidi zucchini.
Raccoltele, mondatele, lavatele, le pone nel paiuolo insieme con patate. Poi affetta il pane, utilizza rosicchioli, tozzi rinsecchiti. Al momento della bollitura pone tutto nel calderone. Nel frattempo avrà fatto sfrigolare pezzi di lardo. Verserà lo strutto e l’olio crudo quando avrà scodellato negli ampi piatti di creta la variopinta vivanda. Cibo degli dei».
La cosa strana è che il mio, al momento unico, nipotino a Bari con la mamma per 48 ore per una pratica di lavoro presso il Tribunale, quello per intenderci che mi regala l’affettuosissimo ‘nonno non capisci niente’ (senza l’aiuto della nonna, ma questo non si dice) mi ha detto «Nonno posso prendermi questo libro?», senza vedere ho risposto «Tutti i libri che vuoi». Gli serviva per tenere sollevati i pezzi della macchinina che stava montando…il volume era Pasquale Soccio «Poesie 1925-1998» (Edizioni del Rosone, Foggia, 2021, pp. 280) a cura di Michele Galante, con un sostanzioso e pregnante saggio introduttivo di Ferdinando Pappalardo. Gli interessati sanno perché non mi sono occupato di questo bellissimo testo, ma Sada-Soccio mi è parso un binomio che sta bussando alle porte del mio cuore in maniera non fortuita con una riflessione di Pascoli:«Poesia è trovare nelle cose il loro sorriso e le loro lacrime». Dal momento che siamo partiti da una leggenda vi è una frase pronunciata da qualcuno che ha preferito rimanere anonimo:«L’uomo inventa delle leggende per farsi paura e delle religioni per rassicurarsi».