San Severino, Apricena e l’avvenente castellana delle leggende di La Sorsa


LIVALCA - Alcuni anni fa mi feci accompagnare da due amici sul Gargano perché dovevo conoscere la professoressa Leonarda Crisetti Grimaldi, con cui avremmo realizzato due mesi dopo un volume interessante, avvincente e stimolante dal punto di vista storico «L’impatto della guerra 1915-18 a Cagnano Varano e l’Idroscalo del Gargano», e dal momento che, essendo loro seduti avanti ed io sdraiato dietro per i noti (a chi mi frequenta!) motivi  non ho potuto  ben comprendere  dove ci fermammo per il  pranzo, vi racconto l’accaduto. Colui che era  ‘navigatore’, avendo svolto il mestiere di rappresentante per un noto gruppo cartario da’ lavoratore attivo’ era esperto della zona, guidò il pilota verso un luogo che ci stava già portando sulla montagna sacra (a lume di ‘sapore’  di pane, ritengo nelle vicinanze di San Severo)  dove si avvertiva  un’aria   più delicata e respirabile.   

Mancando il controllo sul cibo di mia moglie - alimentazione spartana,  intransigente e poco amante della golosa goduria - non mi sono privato di niente, negandomi, da persona responsabile quale sono sempre stata, ‘il nettare degli dei’ che mi crea problemi immediati. Questo bravo oste, assistito da due brave donne di cui una era la moglie, diede il meglio della sua arte  e quando gli consigliai di preparare una frittata con la pasta ‘avanzata’ (avevamo chiesto la ‘zuppiera’ al centro), portò un capolavoro da un  profumo ‘divino’ che attribuì alla mentuccia selvatica autoctona.  

A questo punto non potetti fare a meno di ricordare una leggenda che riportò Saverio La Sorsa nel suo volume «Leggende di Puglia»(Levante, 1958) che aveva come protagonista la menta incolta.   Si racconta che la Sacra Famiglia nel suo faticoso percorso verso L’Egitto, nonostante la protezione dell’Eterno,  dovette superare non solo  ostacoli  ma anche quella spossatezza che non risparmia nessuno. Nelle campagne di San Severo la Vergine decise di far riposare su un prato il suo Bambino e lei si addormentò vicino. Riposarono magnificamente e al risveglio la Vergine riprese fra le braccia il Figlio, ma non poté fare a meno di notare che da quel giaciglio improvvisato su una sottile erba si diffondeva  un profumo gradevole,intenso e vigoroso: era ‘nata’ la menta selvatica. Non contento  che non fossi stato  ‘ascoltato’ da nessuno seguitai con un’altra leggenda che riguardava San Severo e fu a questo punto che un simpatico anziano signore  che era seduto al tavolo (più che tavoli panche)  a fianco del nostro, cui avevo fatto assaggiare la frittata, si disse interessato al racconto.  Mi spostai da lui che era in compagnia del nipote - un giovane ingegnere informatico che stava ‘lavorando’ con il cellulare - e ricordo che mi disse che era  nativo di Apricena e viveva a Bologna.  

La leggenda è inquadrata nel periodo in cui i Saraceni si fecero ‘vivi’anche sul Gargano - la storia ufficiale narra che furono cacciati da queste terre nel  967 - e gli abitanti impauriti pregarono San  Severino,  il loro protettore,  di aiutarli.  Il santo si consultò con il suo Signore e ottenne il permesso di tornare da comune mortale fra i suoi parrocchiani.  In breve l’ex santo, impugnando solo una croce, spinse i suoi fedeli a difendersi strenuamente e con coraggio e li guidò alla vittoria. Dopo un duro conflitto San Severo fu libera  e il ‘capo’ potette rientrare nei suoi ‘abiti’ santi. Finita la storia il mio interlocutore chiese al nipote  se esistesse in San Severo una chiesa dedicata al santo, il giovane professionista  con il suo tecnologico  cellulare fece ‘bingo’.

In quella località famosa per il suo vino bianco esiste una  magnifica cattedrale dedicata al santo, tale autorevole edificio sacro viene considerato ‘monumento nazionale’.   Appena ‘pensionato’ andrò a visitarlo con mia moglie Angela, in modo che lei possa chiedere una  ‘grazia santa e severa’.

Questo signore nato nella località famosa per la pietra calcarea detta di Apricena mi parlò di una storiella che si tramandava oralmente nel suo paese  che, secondo testimonianze storiche inconfutabili, fu fondato da Federico II di Svevia  nel 1220 e fu rasa al suolo dallo spaventoso terremoto del 1627. La storia, che mi narrò questo preside in pensione di scuola media, univa due leggende che ho trovato citate da Saverio  La Sorsa e che riguardano proprio Apricena. Schematicamente vi riferirò i due racconti in maniera isolata, anche se entrambi riguardano le donne e i loro ‘capricci’.  La Vergine cercava disperatamente il Figlio, perché voce di popolo riportava che fosse  stato arrestato dai giudei,  per giunta era il Venerdì della Settimana Santa.  Si rivolse a più donne - anche allora se volevi  ‘informazioni’ alle donne dovevi rivolgerti - e una di queste  intenta a pettinarsi davanti uno specchio, rispose in maniera scortese.   Allora la Vergine Maria pronunciò «Maledetta quella treccia, che di venerdì s’intreccia» e che ricorda a tutti - parrucchieri esclusi ! - che non porta bene pettinarsi il  venerdì santo.   Il preside,  in perfetto dialetto del suo paese,  mi  declamò   almeno due terzine che andavano in questo senso.  Continuando - siamo passati all’altra leggenda  -  il racconto mi riferì di  una bella e ricca signora, proprietaria di un castello, che aveva deciso di cedere alla corte serrata di un saraceno ‘buono’, solo se avesse esaudito una sua specifica richiesta. L’uomo, definito di nobile casato, bello e coraggioso, era anche un abile contadino molto amato nel circondario di Apricena perché aveva contributo a liberare il territorio dai numerosi  serpenti  presenti.

L’operoso e abile contadino aveva  anche costruito un magnifico castello e, completata l’opera, chiese in sposa la castellana che viveva in un maniero non molto distante dal suo. La richiesta della signora,  che il  La Sorsa definisce avvenente, fu che il suo futuro marito dovesse costruire un ponte di cuoio - difficile da trovare ieri come oggi  a prezzi fuori mercato - in modo che ella potesse transitare  da un maniero all’altro senza mettere piede a terra.  Accecato d’amore il saraceno iniziò la costruzione e ben presto la non comune  esosità della richiesta, prosciugò i suoi fondi. Morì di fame e di stenti guardando il castello della sua bella e (si può dire ?) ‘pazza’ innamorata.  

A questo punto il preside disse testualmente: «Da allora chi  dice donna dice danno» io, con due figlie e una moglie, dico «Chi dice donna, dice dono».  Ora vi regalo due proverbi latini dedicati alle donne, mettendoli in bocca al professore di Apricena e che io mi limito a riportare «Quod non potest diabolus mulier evincit» e  «Non hodie, nec heri, nec cras crede mulieri»,  e due proverbi baresi  «La megghière jè mjìnze pane»e «La megghière du ualde piace a ttutte» tratti dal « Nuovo dizionario dei bares» di Enrica e Lorenzo Gentile. Dimenticavo quando andai a pagare l’oste mi fece presente, contento in tutti i sensi, che avevamo mangiato per nove ed io non ebbi il coraggio di precisare che il mio numero fortunato è l’otto…non volevo dare i numeri.  

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