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Signore e Signori,
trascendere la natura umana e aver contezza d’essere tutti fratelli, come d’altra parte la scienza afferma al di là degli assunti umanitaristici di base, non e’ cosa facile . Una fratellanza fondata sul rispetto reciproco di idee , tradizioni , confessioni religiose e lingue non e’ una aprioristica realtà ma una frontiera da raggiungere : non è casuale il racconto biblico di Caino e Abele, un racconto che ci dice che l’amore per l’Altro viene dopo l’esperienza originaria dell’odio, come leggiamo in S. Freud. La fraternità non è mai facile, al di là di ogni affermazione di principio : essa, infatti, come la dimensione della pace e’ sempre tutta da edificare. Caino e Abele sono diversi ed è questa diversità , questa Alterità, questa presunta predilezione dell’Essere supremo per Abele che lascia spazio in Caino al gesto fratricida che già si annidava in lui in difficile dialogo con Abele.
Il gesto, dunque, al posto di una parola, al posto del dialogo. Caino lo aggredisce in campagna e lo uccide. Dio chiede : “Dov’è Abele, tuo fratello?” e Caino risponde “Non lo conosco” “Sono forse io il custode di mio fratello?” Ma nel misconoscere la fraternità c’è anche la possibilità di riconoscere in se stessi l’Alterità e dunque riaprire un dialogo. Siamo tutti figli di Caino: oltre la natura economica della guerra esiste anche in noi” un terribile amore per la guerra “ come scrive J. Hilmann . Cipride ed Ares, Eros e Thanatos sempre aleggiano nella storia dell’umanità. Siamo tutti attratti dall’orrore, ma siamo tutti capaci di trasformare l’orrore che abita dentro di noi nella possibilità di credere, immaginare e progettare i luoghi del Bene: l’Utopia.
In Enzo Bianchi si legge riferendosi a quanto affermato da Massimo Recalcati che “Ciò che infatti definisce Caino è il suo essere “fratello di”: solo chi sa di essere fratello comincia a sapere chi è lui stesso, anche se spesso non vogliamo capirlo… Ogni umano, per essere tale, deve porsi in un rapporto situato, in un faccia a faccia con altri umani, altrimenti è perduto. E questo legame responsabile si definisce fraternità.” Non dimentichiamo che i rancori e i risentimenti operano nell’inconscio determinando anche a distanza gravi problemi con l’emergere di conflitti e sofferenze.
Nella Bibbia, ancora, si racconta che Abramo, essendo Sara infertile, generò un figlio, Ismaele, da Agar, e che successivamente, per opera di Dio, Sara fu resa fertile e generò Isacco. Ma, su volere di Sara, Abramo costrinse Agar al deserto dove poté sopravvivere con Ismaele grazie ad una sorgente d’acqua fatta zampillare da Dio. Per Tradizione Ismaele è capostipite degli Ismaeliti, il popolo arabo, e Isacco capostipite di Israele da cui deriva anche la Cristianità. Non dimentico la mia formazione psicoanalitica per cui, come anche osservato da Fethi Benslama, mi sembra di ravvisare che le donne appaiano centrali in questa biblica vicenda. Vi è dunque una matrice femminile che ritorna: due Madri e lo stesso Padre: Agar, Sara e Abramo. Fethi Benslama pone così a fuoco uno spazio cruciale “entre-deux-femmes” quale luogo della rimozione di antiche problematiche (in La Psychanalyse à l’epreuve de l’Islam, Parigi 2004).
Non è difficile cogliere, su altri piani, le radici profondissime di un risentimento atavico che tra fratelli risulta sempre abbastanza complesso. Risentimento che, elaborato alla luce della consapevolezza, se pur sofferta, dovrebbe facilitare la riconciliazione con le linee genitoriali che guidano tutta la vita in modo da trascendere i legami di sangue, paternità e maternità e figliolanza.
Il discorso è profondo ma in ogni caso i valori umanitari, che evidentemente non sono proprietà di alcuno ma appartengono all’universo mentale degli esseri umani facilitano la possibilità di creare interconnessioni, aree transizionali in cui può essere sviluppata la coscienza che in realtà tutti siamo genitori e figli l’uno dell’altro, fratelli in pienezza di senso al di là dei vincoli di sangue.
Ma urge ritrovare parole perdute , quell’aver fiducia che la realtà contemporanea ha smarrito nelle relazioni virtuali, di potere, di annientamento della personalità e dei popoli. Crediamo ancora nella accoglienza senza la perdita della nostra identità, nel dialogo al posto dell’atto, nell’amore?
L’essere umano nel XXI SECOLO ci appare dentro di se ‘ non molto diverso dai progenitori che non disponendo di parola usavano la clava ; come si osserva oggi usa strumenti più raffinati per esprimere quello stesso germe di violenza che giace nei luoghi di ciò che gli studiosi della psiche chiamano Inconscio. Con tali luoghi intratteniamo legami , che lo si voglia o no riconoscere.Il nostro sentirci solidali non può non tener conto della memoria, dei sogni, dei desideri, di quei luoghi mentali in cui il passato non ha ceduto il posto al futuro , che la nostra stessa Identità somiglia ad un Mosaico che ogni volta rimanda ad un insieme, continuamente mutevole, di visioni del mondo.
Madri americane e afgane con l’11 settembre 2001 sono state espropriate degli affetti più cari, ci sono apparse senza dimora. Hestìa, l’antica dèa custode del focolare, si è ritrovata dinanzi alla terrifica necessità di rifugiarsi in architetture antiterroristiche per difendersi dal fuoco nemico, anziché custodire il “fuoco” metaforico degli affetti, delle tradizioni, della cultura: dell’identità sia individuale che di un popolo.
Madri e bambini in Afghanistan con timore ancora oggi come allora rivolgono lo sguardo ad un futuro incerto, difficile... Il nostro sguardo a questo punto, dinanzi a così efferata realtà, non può non trasformarsi in un grido di orrore. Un grido che è proprio come quello che ha descritto Munch, già nel 1892, prima di dipingere L’urlo: «Passeggiavo con due amici quando il sole tramontò. Il cielo divenne all’improvviso di un rosso sangue… I miei amici proseguirono il cammino, mentre io, tremando ancora per l’angoscia, sentii che un grido senza fine attraversava la natura». Nel volto rappresentato da Munch, come alcuni osservano, si percepisce l’urlo muto, la terrificità delle esperienze primordiali quali la dipendenza assoluta, il terrore dinanzi alla propria inermità, l’estraneità ambientale, l’odio e l’amore che accompagnano il nostro presentarci al mondo.
Il dolore è effrazione. La violenza crea una inarrestabile catena di odio e soprattutto le vittime finiscono per identificarsi inconsapevolmente con l’aggressore, contribuendo al comportamento violento di massa.
Le donne in modo particolare diventano persone «in lutto perenne» (Volkan, 2001):Troppo spesso oggi assorbiamo messaggi mediatici che ci abituano anche nel nostro Paese alla violenza sul femminile: sembra che non ci siano più parole in grado di costruire il discorso e il pensiero.D’altra parte l’orrore al quale spesso assistiamo non è forse il risultato della tragedia di un mondo privo di parola, incapace di comunicare con sé e con l’Altro?
Di qui l’azione educativa che tende alla “presa di parola” da parte della Associazione Crocerossine d’Italia Onlus per immaginare e realizzare i luoghi del bene, del curare e del “prendersi cura” dell’Altro, in una rinnovata visione del mondo. Si tratta, in realtà, dell’Arte della cura, che dovrebbe appartenere a tutti. Un prendersi cura consapevole e amorevole.
E non si neghi mai che l’istinto predatorio non risparmia a volte nemmeno coloro che si ammantano di buonismo e tentano di disgregare ogni cosa… Spesso proiettiamo all’esterno il Nemico che abita in noi e alle Associazioni di Volontariato tutte, nessuna esclusa, tocca il compito di illuminare quei luoghi segreti che sottendono le nostre identificazioni e la nostra connaturata violenza come apprendiamo dall’episodio biblico di Caino.
In una lettera di Freud in risposta a Einstein in relazione alla guerra leggiamo : “La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”.” Il problema però va ancor più approfondito: si può amare se si conosce prima se stessi, le nostre parti inique, quel nemico che abita in noi e che proiettiamo all’esterno nelle identificazioni maligne. Questa è la conditio sine qua senza la quale non può fiorire il dialogo al posto del gesto di Caino.
Santa Fizzarotti Selvaggi