Il medico e i proverbi


VITTORIO POLITO -
Il medico è colui che è laureato in medicina e chirurgia e abilitato all’esercizio della professione sanitaria, solitamente in una struttura clinica pubblica ospedaliera, universitaria o anche privata. In sostanza chi professa la medicina e si occupa di studiare, curare e prevenire le malattie delle persone. Il termine indica la professione più che la persona in sé e così abbiamo il medico di famiglia, quello ospedaliero, il primario, il medico di bordo (che su grandi navi provvede all’assistenza medica e chirurgica dell’equipaggio e dei passeggeri); il medico del lavoro, per finire a quella lunga lista di specialisti che esercitano la loro attività in una precisa branca della medicina (internista, chirurgo, otorinolaringoiatra, ginecologo, oculista, dermatologo, anatomo-patologo, radiologo, citologo, odontoiatra, audiologo, medico militare, ecc.). Abbiamo anche il medico fiscale, che, su richiesta del datore di lavoro, ha il compito di accertare l’eventuale stato di malattia di un dipendente, e il medico legale, che esercita la sua attività di medico accertando elementi o fatti di rilevanza legale.

Vediamo alcuni proverbi.

“Tempo d’epidemia medici in allegria”. Le malattie epidemiche facevano la fortuna dei medici che lavoravano e guadagnavano molto. Si riferisce a stati endemici, non a epidemie acute e catastrofiche, come il Covid, dove c’è poco da guadagnare, anche perché oggi c’è il S.S.N.

“Medico come il vino e chirurgo come il pane”. Il medico deve avere molta esperienza quindi deve avere esperienza; il chirurgo invece deve avere la mano ferma e i riflessi pronti: perciò deve essere giovane.

“Né dal medico per ogni male, né dal prete per ogni peccato, né per ogni sete al boccale e né per ogni lite dall’avvocato”. I piccoli guai bisogna risolverli da soli, senza l’aiuto di chi, mettendo le mani, ne finirebbe col trarne vantaggio, arrecando un danno superiore al beneficio sperato.

“Il miglior medico è quello che con più abilità sa infondere la speranza” (Samuel Taylor Coleridge, poeta, 1772-1834).

Curiosità. Leggo nelle “Avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi: «E i medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante. – Vorrei sapere da lor signori, – disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio, – vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo! A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quand’ebbe tastato ben bene, pronunciò solennemente queste parole: – A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo! – Mi dispiace, – disse la Civetta, – di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero! – E lei non dice nulla? – domandò la Fata al Grillo-parlante. – Io dico che il medico prudente quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lì non m’è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo! Pinocchio, che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto. – Quel burattino lì, – seguitò a dire il Grillo-parlante, – è una birba matricolata... Pinocchio aprì gli occhi e li richiuse subito. – È un monellaccio, uno svogliato, un vagabondo. Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli. – Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo! A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era Pinocchio. – Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione, – disse solennemente il Corvo. – Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega, – soggiunse la Civetta, – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace morire».

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