Se gli aneddoti aiutano a “leggere” un personaggio o un fatto storico, Marco Aurelio (121-180 d.C.) attese 23 lunghissimi anni prima di diventare imperatore con la passione per la filosofia (corrente degli stoici).
Non li passò nell’otium, l’intrigo, le mollezze delle ricche domus, ma accanto ad Antonino Pio che, quando aveva appena 17 anni, lo aveva adottato su invito di Adriano. Anche così imparò la difficile arte del governo. E tracciò una linea netta rispetto alle perversioni degli imperatori precedenti viste sul Palatino. D’altronde, aveva avuto ottimi maestri, fra cui Epitteto, che gli avevano trasmesso i valori importanti in assoluto per un uomo, soprattutto del suo censo, in rapporto alle responsabilità politiche in divenire.
“Pensieri”, Bompiani Editore, Milano 2021, pp. 576, € 16,00, collana “Testi a fronte”, collana fondata da Giovanni Reale e diretta da Maria Bettetini, a cura di Cesare Cassanmagnago che lo introduce porgendolo anche ai non addetti ai lavori (con testo greco a fronte), propone le confessioni intime di un uomo di potere giunto alla fine della sua parabola esistenziale.
Miracolosamente sfuggito alla damnatio memoriae e ai rovesci dei secoli, l’autore non li mise giù per darli al pubblico, ma affinché restasse un ancoraggio nel tempo del suo governo in un momento storico complesso. Anche se forse ben sapeva che sarebbero finiti in mano ai posteri.
Sono riflessioni che riecheggiano la filosofia greca più alta, che i Romani assorbirono e metabolizzarono rimodulandone i codici e che spaziano a tutto campo sulla vita e sull’esercizio del potere, sullo sfondo di un Cristianesimo che va radicandosi e muta gli orizzonti dell’uomo, i popoli, la Storia.
Marco Aurelio (ceppo antonino) riconosceva agli avi i loro meriti, tributando loro gli onori dovuti, ben sapendo che tutto è relativo, nulla sfugge all’usura del tempo. C’è, nel suo pensiero, una luce tenue, crepuscolare, accesa dall’approssimarsi della vita che perde di forza e intensità, ma anche dalla piena coscienza di aver governato con saggezza e dignità, di un uomo di pensiero costretto dagli eventi, e per il bene della patria, a scendere in armi col suo popolo.
L’imperatore ha piena consapevolezza di vivere sospeso allo snodo di un cambio epocale: il vecchio mondo si indebolisce e corre verso il tramonto, il nuovo è confuso e difficile da decodificare. Sa che il suo patrimonio di valori mutuato dalla civiltà di cui è fiero, contaminati da quelli della Polis, presto sarà relativizzato. E tuttavia non smette di credere nella loro potenza maieutica, perché li legge come universali.
E ammonisce: “Scava dentro. Dentro è la fonte del bene, che sempre ha il potere di sgorgare, a condizione che tu scavi sempre”. Un “manifesto” umano, prima che politico, di rara efficacia e bellezza. Di estrema attualità al tempo della politica governata dagli algoritmi e ridotta a mera propaganda e indecente pantomima.