LIVALCA - Dicasi suicidio un atto volontario e intenzionale con cui un soggetto, in piena coscienza, decide di rinunciare alla vita e di causarsi la morte.
Secondo dati statistici in forza alla medicina legale risulta che il modo di suicidarsi degli uomini è diverso da quello delle donne: i primi ricorrono spesso alle armi da fuoco, da taglio, all’annegamento e all’impiccamento, le donne all’avvelenamento, anche con il tubo del gas. Ho fatto questa premessa perché ho appena ricevuto l’ultima fatica editoriale del noto giornalista Michele Cristallo il quale, nel libro «Il mistero della morte di Cenzina Di Cagno. “Suicidata” dal marito» (Adda Editore, pp. 142, Bari 2021, e 15.00), ricostruisce un fatto di cronaca molto eclatante avvenuto il 29 dicembre 1902 a Bitonto. Avevo lasciato Cristallo non molti mesi fa in compagnia di «Peppino amore mio. Léontine racconta la sua vita con De Nittis» (Editrice Rotas), che ricordo solo per testimoniare come la nostra amata, da troppo ormai assente, «La Gazzetta del Mezzogiorno» abbia contribuito a formare GIORNALISTI che nel tempo continuano a ‘produrre’.
Quel ‘suicidata’ dal marito è la voce del popolo che tra Bari e Bitonto, in maniera non forbita ma molto naturale, faceva intendere come fossero andate realmente le cose secondo chi conosceva i soggetti protagonisti del nostro fatto.
La storia, in breve, prende avvio da un matrimonio ‘combinato’ tra un militare di 28 anni, con prospettiva di brillante carriera avendo frequentato le Accademie di Modena e Torino, ed una graziosa, istruita, elegante signorina di 21 anni appartenente ad una ricca e ‘potente’ famiglia che ha propri interessi tra Bari e Ostuni. Vito Modugno, il militare che proviene da una famiglia di agricoltori di Bitonto che aspirano ad una ‘classe’ che si ottiene solo imparentandosi con i benestanti di lungo corso, si è già concesso una vita ‘chiacchierata’. Vincenzina Di Cagno invece è una ragazza di ottima famiglia, senza macchia, che unendosi ad un tenente del Genio, questa la qualifica, si assicura un futuro certo e rispettabile. Il matrimonio si celebra il 19 marzo del 1900 - nonostante molti sapessero che il Modugno avesse da anni una relazione con una maestra di nome Elettra che gli aveva ‘donato’ un figlio non riconosciuto e, secondo testimonianza di ufficiali ‘indipendenti’, fosse un tipo violento e poco raccomandabile - e gli sposi partono subito per Pavia dove il tenente era distaccato per comando. Dopo pochi mesi ritornano a Bitonto perché la ragazza è incinta e lui deve partire comandato in missione in Cina (come poi si saprà durante il processo si era offerto volontario e, giudizio da persona non di parte, un uomo che lascia una donna appena sposata ed in attesa di un suo erede è…). L’ufficiale ritenne che fosse preferibile per la ‘povera’ Cenzina essere assistita da suoi parenti. Il medico che accertò la gravidanza della ragazza dovette anche constatare che la donna fosse affetta da sifilide e, quindi, la ‘sventurata’ tornò per un breve periodo dai suoi ad Ostuni. Nasce la bambina, anche lei affetta da sifilide, e finalmente il tenente torna, carico di gloria poco rispettabile come sapremo in seguito, dalla Cina. La ragazza ha ben compreso il livello della persona sposata e la malattia, che non riteneva di meritare e di cui non accettava le conseguenze, fanno il resto. L’isolamento dai suoi cari, voluto dal marito, la costringono a vivere mesi di puro inferno (La famiglia Di Cagno, per stupido orgoglio, invece di essere vicina alla povera Cenzina non fa quello che avrebbe dovuto fare qualsiasi persona di buon senso… Benvenuto divorzio!).
Il comando militare nel frattempo mette sotto inchiesta il tenente per ingiustificato arricchimento e condotta non conforme alla legge.
Il 29 dicembre 1902 a Bitonto Cenzina Di Cagno si suicida con un colpo alla tempia sparato da una pistola Mauser che, solo per innestarne il cane, era necessaria una forza che la ragazza, a detta di tutti, non possedeva..
Ho letto in una notte l’avvincente libro di Cristallo - memoria memoria è proprio vero che sei il diario che tutti ci portiamo addosso - e dai miei ricordi è affiorato che mi sono occupato del caso con un articolo su «IL MERIDIONALE» nei primi anni ’70 su segnalazione del direttore Alberto Margherita, un avvocato penalista di grande talento, di cui rammento e vi riporto la tesi di fondo: secondo il penalista la soluzione del caso era riuscire a trovare il motivo per cui la ragazza doveva essere eliminata velocemente - la festa di fine anno avrebbe visto tutti i parenti insieme e sarebbe stata l’occasione giusta per rivelare quel ‘segreto’ che forse aveva scoperto per caso - e il marito era stato ‘costretto’ a fabbricare in corso d’opera prove facilmente ‘smontabili’. Pensate Cristallo nel capitolo “Il tenente isolato nel suo studio” ci narra come il medesimo non volle vedere il corpo della moglie agonizzante nonostante il primo medico di nome Gallo verso le nove gli comunicò che la moglie era grave ma che forse vi erano speranze… Il militare, quella mattina stessa inviò il suo amico Domenico Giordano, ex ufficiale, a Bari per ordinare le corone e organizzare i funerali: la moglie spirerà alle 15.00. In seguito la memoria della sfortunata Cenzina fu infangata con congetture ‘studiate’ a tavolino come fa notare Michele l’autore del libro (un amico si può chiamare per nome) nel capitolo “Le maldicenze dopo la morte”.
L’abilità dello scrittore consiste nel fare in modo che il lettore, specialmente nel caso in cui la trama rivesta i panni del ‘giallo’, venga catturato da quel ‘quid’ sospeso che lo porti ad appassionarsi alla vicenda per arrivare alla conclusione.
Tornando alla storia il 13 gennaio 1903 il tenente Vito Modugno viene arrestato perché imputato di omicidio aggravato e qualificato per la circostanza della premeditazione in persona della moglie secondo il Codice Penale dell’epoca. Nel 1904 la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso degli avvocati del tenente, fece trasferire in altra sede il processo onde non essere influenzato dall’atmosfera di ostilità che si era creata nell’aerea barese. Il 18 marzo 1905 a Perugia inizia il processo che «Il Corriere delle Puglie» fece seguire da un proprio inviato.
Sabato 23 settembre 1905, dopo 96 udienze, la giuria alle ore 15,55 si ritira nella sala delle deliberazioni e 23 minuti dopo torna in aula - dopo appena 1380 secondi -per leggere il verdetto. Il tenente Vito Modugno di Domenico risulta, secondo la giuria popolare: NON COLPEVOLE. Subito dopo mentre il padre del tenente sviene, si vede, per la prima volta secondo gli avvocati, l’imputato piangere. I dodici giurati si sono espressi in questo modo: 6 innocente, 6 colpevole. “In dubio pro reo” la formula con cui la tutela dell’innocente prevale sull’interesse alla condanna del reo.
La professione dei dodici giurati era la seguente: 6 possidenti e 1 notaio, 1 maestro, 1 ingegnere, 1 impiegato, 1 medico e 1 chirurgo. Tutti uomini nessuna donna, non è un appunto, ma una semplice constatazione. Cristallo con le ultime annotazioni - interessantissime che ci offre con il mestiere del cronista cresciuto sul vero ‘campo di battaglia’ e non ‘cullato’ su un oggetto che è chiamato PC - ha fatto cadere un mio mito dal punto di vista professionale. Avevo considerato la strategia dell’avvocato Mazza, che cercava di demolire l’immagine di Cenzina dando visibilità a presunti scatti di collera che si intuivano dalla lettura delle lettere inviate al marito, un abile espediente frutto del suo curriculum accumulato sul campo. Mazza era senz’altro la punta di diamante del gruppo di avvocati che difendeva il tenente, con un passato politico di tutto rispetto essendo stato deputato fino al 1900, e sue erano le memorie difensive e gli interventi durante il dibattimento. Cristallo ci segnala anche che nel 1904 non diventò deputato a causa della ‘guerra’ che gli fece Giolitti, ma nel 1909 ritornò in Parlamento, dove morì l’anno successivo per infarto al termine di uno di quei discorsi palpitanti di cui era maestro. Con mia profonda delusione ho scoperto che proprio l’avvocato Mazza era l’autore della lettera ‘anonima’ con cui invitava il tenente Vito Modugno a diffidare degli…avvocati perché lo avrebbero ‘pogliato’ di tutti i suoi averi.
Cristallo ci racconta anche come sia andata, dopo l’assoluzione, la vita del protagonista del suo libro e onestamente ammette che tali notizie le ha ricevute consultando un volume del 2016 che si deve al prof. Raffaele Barba dal titolo «Il tenente Modugno:Quando gli italiani invasero la Cina».
Anche il processo intentato dai superiori al tenente per i motivi suesposti fu archiviato con il non luogo a procedere. Modugno presentò le dimissioni dall’esercito che furono accolte il 21 ottobre del 1906. Rilasciò una breve intervista al «Corriere delle Puglie» ( in occasione dell’assoluzione da uxoricidio uscì in edizione straordinaria) in cui manifestava l’intenzione di pubblicare un memoriale sulla sua vicenda. Dopo il processo l’ufficiale si trasferì a Firenze con la figlia Maria usufruendo dell’ospitalità del suo fedele amico Domenico Pannone, che gli era stato vicino durante tutte le fasi del processo. Vito Modugno nel dicembre del 1907 si risposò con una giovane signora di 26 anni di nobile famiglia e vedova del marchese Roti, da questo matrimonio nacquero tre figli, di cui una bambina che morì dopo pochi mesi di vita. Nel 1918 muore Vito Modugno a soli 47 anni e, subito dopo, a 18 anni la figlia avuta da Cenzina. A 39 anni morì anche la marchesa seconda moglie. Due avvocati del collegio che difese Modugno gli fecero causa per essere pagati: il tribunale diede ragione ad entrambi…uno di loro era il Mazza famoso penalista di cui ci siamo occupati prima.
Un plauso all’editore Giacomo Adda che ha convinto un Cristallo refrattario a mettere mano ai suoi appunti per varare una pagina di storia vera e vissuta.
Mi piace sottolineare il ringraziamento che Michele riserva al professore Giuseppe Dibenedetto, per ben trentatre anni direttore dell’Archivio di Stato di Bari, che abbiamo affiancato in tante iniziative culturali in anni in cui niente era facile.
Mi viene in mente quello che disse Dio ad Abramo «Numera stellas, si potes», affidato alla libera interpretazione e, per far perdere la pazienza al nostro giovane direttore Ferri, un frase forse di Sallustio «Concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur».