FRANCESCO DE MARTINO - Quella di Grazia Stella Elia in questa nuova raccolta - Grazia Stella Elia «I paràule di tatarànne. Le parole degli antenati», Prefazione di Daniele Maria Pegorari, FaLvision Editore, Bari, dicembre 2021, e 18,00 - è poesia che canta odori (di rucola, di rose, del Natale, di antico, degli avi), colori, dolori e soprattutto la nostalgia di nu münnecanan’esìstecchiü, i cui beni materiali e immateriali (mestieri e orci, pentole, pignatte, conche e carri agricoli, calessi, calessini, fontane, ecc.) vanno amorosamente inventariati come un tempo quelli micenei nelle tavolette in lineare B. In questo mondo arcaico contadino, austero e sofferto ma con grande senso di dignità e di rispetto, tutto costa fatica perché deve durare, dalle scarpe grosse alla cucina, al“pane”, “un figlio piccolino”, un “neonato” da riparare dal freddo, avvolgendolo con le coperte, ma lavorato a furia di “pugni”, perché diventi resistente e impari a durare una settimana. In questo mondo inflessibile ma anche tenero e magico, tutto vive, tutto parla, dagli antenati alla biancheria ricamata.
I campi sono “curati come giardini”, le vigne in ottobre si “aggiustano per le feste” e si vestono di rosso, e i peschi, le spighe, l’ulivo, la pianta più bella, che dalle olive fa colare oro, sono tutti mirabilia.
Molto profonda, platonica, è l’immagine della poetessa-talpa che scende sempre più giù nella profondità della terra, a sentire le parole degli antenati, in un mondo iper- più che ultra-terreno, dove si parla soltanto dialetto, dove si possono ascoltare le paràule, “chiddeparàulecajérne/ zücchere, velöne, sanghevève:/paràuletonnetonne/ accòume a ccìerche,/ chiàinechiàineaccòume a jòuve/ canan’addevéndenemè/ ssiàcque.// Paràuleammandenóutestrènde/ mmézz’èdìende che ttande/ de cervìedde o allazzöte/ che llaveźźarréie/ accòume a sckuppettöte…” .
Sono le paraùleandéche, bbèlle,/paraùle di tatarànneméie, che riescono ad “accendere l’anima”, ma che sono anche le sue, della poetessa che si mette al loro ascolto, scendendo da loro, andandoabbàsseabbàsse,“Sémbrecchiù affünne,/ cchiùssotte”. Il tema della catabasi nel ventre, nell’intestino, nell’utero della terra, torna in un’altra poesia nella quale è dichiarata la volontà di calarsi jùnde alla grotteaffünne/ di tatarànne, per organizzare una pestazzìedde per conversare con gli antenati alla maniera antica, su fatte assenziöle,/di fatte de famìgghie e rimanere incantata dalle parole, pronta ad ascoltarle a lungo.
Una nostalgia dei tempi lenti, lunghi, quelli che ci vogliono per temi importanti, come matrimoni, malattie, raccolti disastrosi e …, più di tutti, la morte, la bbèllamörte, alla quale, in un’altra poesia, la poetessa chiede di prenderla mbrazze, come faceva sua madre quand’era bambina.
Elia è come gli archeologi che scavano nel ventre della terra, nella panzeapèrte, piena di spade, anelli, orecchini, beni culturali da recuperare e inventariare: andechetàcaparle/ jùnd’a sti grütte. A questa antichità si intonano anche alcuni raffinati echi dalla poesia e dalla filosofia antica: il notturno di Alcmane in Jénötte, il socratico “so di non sapere” in Saccecananźonnìende, il giambo IV di Callimaco in lode dell’ulivo nelle tante poesie sull’arve d’aléve, “nu giagànde,/la cchiùbbèlle de tütte i chiànde”, l’albero di pace.
In conclusione un libbre di paràule de tatarànne, di remote, poetiche parole, delle quali Grazia Stella Elia non si sazia mai e noi con lei.