ROMA - Tra le tante problematiche del “fine vita”, emergono quelle riguardanti la rinuncia/rifiuto alle cure, il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia: questioni controverse e complessi capitoli che riguardano ineludibili aspetti esistenziali di ciascuna persona. Così in una nota il presidente nazionale AMCI Prof. Filippo M. Boscia.
Mentre monta nel Paese - prosegue - una cultura eutanasica, nobilitata al contempo da libertà e pietà, un acceso dibattito si apre sulle delicate questioni che riguardano non solo le condizioni di vita debole ma anche tante altre problematiche umane, familiari, culturali, politiche, giuridiche, etico-deontologiche e legislative.
Alcuni iniziano a distinguere tra “vita” e “non vita”, tra “degna” e “non degna”, tra il “morire con dignità” e il “morire senza dignità”, etichettando così con soggettivi e arbitrari giudizi molte condizioni di vita fragile.
Riconosciamo che la richiesta di suicidio assistito o di eutanasia nasce sovente dal rifiuto di continuare a vivere in condizioni di precarietà e grave sofferenza, ma dovremmo essere molto attenti a non accettare con facilità il disumano per pietà, il disumano ragionevole per compassione.
E’ giusto riconoscere libertà e autodeterminazione a tutte le persone, ma questo riconoscimento non dovrà e non potrà confliggere con la libertà, la deontologia e soprattutto con la coscienza del medico.
Una morte degna è da assicurarsi a tutti: questo è un principio essenziale del curare e questa azione, che ha una valenza oggettiva, non può trovare scorciatoie rispetto a pratiche di sostegno e di accompagnamento dell’ammalato nelle fasi ultime della sua vita.
Crediamo fermamente che non si possa far rientrare tra i doveri professionali e deontologici del medico il suicidio assistito e l’eutanasia. Non sono queste opzioni terapeutiche possibili o praticabili nell’alleanza medico-paziente e nella relazione di cura e di fiducia: il medico si troverebbe in conflitto morale con sé stesso, soprattutto se le sue attività risultassero mere prestazioni tecniche senza valore umano ed etico.
Tutti i medici cattolici rappresentano l’assoluta incompatibilità tra l’agire medico e l’uccidere, perché chi esercita la difficile arte medica non può scegliere di far morire e nemmeno di far vivere ad ogni costo, contro ogni ragionevole logica.
La sofferenza del paziente non può essere eliminata a scapito del bene vita.
Nel processo del morire l’azione del medico deve essere di accompagnamento, di empatia, di umana prossimità, di impegno professionale, certamente sempre rinunciando a terapie sproporzionate o straordinarie, inutili, futili e gravose.
I medici cattolici ribadiscono la necessità e l’urgenza di attuare su tutto il territorio nazionale le grandi potenzialità della legge 38/2010 ‘disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla “terapia del dolore” e che ciò va realizzato in modo omogeneo ed universalistico. Sottolineano l’importanza di queste cure e la necessità di mantenere i malati terminali in un percorso esistenziale, sostanziato al massimo da rapporti umani ed affettivi.
Essi hanno l’obbligo di indicare la proporzionalità delle cure avendo attento sguardo sulla storia naturale della malattia.
Hanno ancora l’obbligo di condurre adeguate, efficaci, complete terapie del dolore e cure palliative senza escludere apoditticamente le sedazioni palliative profonde e senza mai determinare atti di abbandono, di allontanamento o di assenza di cure.
I medici cattolici al fine di evitare qualunque fraintendimento o dubbio ribadiscono la loro stabile e immodificata posizione così come previsto da un’etica valoriale, che ritengono giusta, nel convincimento che sia di grave impedimento per loro, somministrare farmaci con finalità eutanasica o assecondare volontà suicidarie.
Ai medici non può essere assegnato il compito di causare o provocare la morte.
Il fine della medicina non corrisponde a questa esigenza ma è fondato indubbiamente sul curare e ristabilire la salute, alleviare il dolore e la sofferenza, assicurare la più alta qualità della vita, soprattutto quando non si può più guarire, ma si può ancora curare.
Chi esercita la difficile arte medica, non può scegliere tra il far vivere o il far morire… e il medico in questo non ha alternative: l’unica opzione che può esercitare è, sempre e comunque, per la vita e a favore della vita, perché è la sua coscienza che glielo richiede e la sua professione che lo obbliga a farlo.
L’introduzione della depenalizzazione delle specifiche azioni eutanasiche nel nostro ordinamento giuridico non entusiasma i medici, anzi, si ritiene che essa possa compromettere le basi stesse della democrazia e del bene comune e alterare i principi di solidarietà e di giustizia da riservare alle persone più fragili. Insistiamo affinché lo Stato non giunga mai a negare forme di assistenza e tutela a malati cronici, anziani, disabili, malati di mente, ecc., avvalorando forme di eutanasia sociale o selezione dei fragili e dei deboli.
I medici cattolici ritengono che l’intera problematica del fine vita con tutti i suoi aspetti umani, personali e familiari, etici e giuridici, politici e legislativi, rappresenti al tempo presente certamente un’opportunità di dialogo, di confronto, di perfezionamento assistenziale verso l’eubiosia (contrario di eutanasia), cioè buona vita, vera sfida per un rinnovato umanesimo della cura, da riaffermare esaltando quel mirabile impegno personale e professionale, scientifico ed umano, che da sempre contraddistingue l’azione medica nella quotidiana lotta contro la malattia e la mai sufficientemente compresa dignità della vita.
Nel caso di una legge intrinsecamente ingiusta - conclude Boscia -, al medico resterà sempre il dovere di ubbidire alla propria coscienza professionale.
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