LIVALCA - Una volta in tipografia si leggevano le bozze e il mio compito era quello di controllare che tutto procedesse non solo bene ma anche celermente ed aiutare, qualora fosse necessario, i tanti direttori di giornali che stampavamo ad impaginare in maniera tale che, l’eventuale titolo e il ‘pezzo’ da pubblicare, fosse compatibile con lo spazio a disposizione. Ci stavamo occupando del pittore molese Onofrio Martinelli, morto anni prima, e vi era una pagina intera dedicata a lui, ritengo sul settimanale diretto da Aurelio Papandrea. Nel riscontrare le bozze notai che i tre estensori che avevano scritto dell’artista, a proposito di un quadro di cui probabilmente pubblicavamo la foto, avevano dato tre versioni simili e pur differenti del titolo dell’opera: Polia, Polyia o Pollia. Si trattava di un quadro del periodo francese dell’artista che raffigurava una profuga russa conosciuta in casa del pittore Sciltian. Fu il critico Pietro De Giosa che rispolverò un ‘refrain’ abusato: «Chiedi a tuo zio Emanuele Cavalli che è stato amico oltre che allievo di Martinelli». Il fratello di mio padre si chiamava Emanuele, Lino per tutti, ed era appassionato di fotografia e pittura oltre ad avere una tipografia in Corso Italia a Bari, tutti lo conoscevano come Vittorio il suo secondo nome. Era risaputo che Emanuele Cavalli da Lucera (1904-Firenze 1981) non fosse mio parente, ma tutti aspettavano la mia risposta «…mio zio non ha sposato la sorella di Alberto Pincherle», in modo che il ‘Luigi’ di turno presente ‘abboccasse’ all’amo e chiedesse «Pincherle chi?». L’ideazione del tutto, secondo i miei ricordi, si deve al genio pungente di Gino Roca.
Anche in quegli anni si era del parere che avere conoscenze ‘importanti’ aiuta - i ‘cavalieri’ ci sono sempre stati - e Onofrio Martinelli (Mola di Bari 1900-Firenze 1966), già amico di De Chirico, Severini, Campigli, De Pisis e Savino, era stato chiamato nel 1930 alla XVII Biennale di Venezia oltre che l’anno prima alla seconda mostra del Novecento italiano di Milano, quindi aveva già un proprio posto nel percorso artistico dell’epoca non solo con i quadri di nudi. Solo nel 1941 Martinelli si unì in matrimonio con Adriana Pincherle, pittrice e sorella di Alberto Moravia (Roma 1907-1990), per cui sarebbe non solo ingeneroso, ma ‘menzognero’ ledere la memoria di un artista che ci ha lasciato opere di grandissimo valore in collezioni pubbliche e private (Tralascio il particolare che Moravia fino a quella data di noto avesse scritto “Gli indifferenti”, in età non ancora maggiorenne secondo le leggi dell’epoca, “La bella vita”, “Le ambizioni sbagliate” e “La mascherata”, dal 1950 in poi verranno “Racconti romani” nel 1954 e 1959, “Il conformista”, “La noia” “L’amore coniugale”, “Agostino”. “La Romana”, “La Ciociara”). Fu allora che mi sono imbattuto per la prima volta in quella corrente (corretto chiamarla corrente?) pittorica denominata «tonalismo» di cui il critico d’arte De Giosa mi fornì i primi rudimenti: pittura genuina, semplice eppure solenne, ammantata di una quiete sacra ed esemplare. Lustri dopo l’amico Carlo Fusca mi confermò il tutto e devo dire che anche lui, come De Giosa, considerava il mio ‘zio acquisito’ Emanuele Cavalli, come valido esponente di tale tipo di pittura. Solo per coloro che hanno seguito la mia ‘divagazione’ sul nome del quadro preciso che uniformammo il tutto con il nome Polia.
Carlo Fusca, tramite un amico, mi ha fatto giungere la sua ultima fatica editoriale, un volume dal titolo «Trattando di pittura» (L’Arco e la Corte, Bari 2021, ill., e 20,00). Ora vorrei evidenziare che non sono riuscito a trovare il mese di pubblicazione e il nome dello stampatore, che fino a pochi anni fa era una prassi obbligata, ma, avendo perso già l’amicizia di un editore per un caso simile, mi asterrò dal farlo onde evitare di elencare le ‘mancanze’ e le contraddizioni della civiltà dell’immagine di cui facciamo parte.
Il mio apparente volo pindarico Martinelli-Fusca poggia sul fatto che entrambi hanno basi pittoriche - il cosiddetto mestiere - che si traducono in forme artistiche significative a dimensione umana: anche Fusca è approdato alla 54° Biennale di Venezia, inoltre entrambi si sono cimentati con composizione di grande formato: Martinelli con “Il riposo degli argonauti” e “I giganti”, Fusca “Battaglia” e “Paesaggio con cascata”, chiaramente cito solo due opere per entrambi per pura ‘par condicio’.
Il volume di Fusca «Trattando di pittura» si apre con una presentazione del direttore dell’Accademia di Belle arti di Venezia, Riccardo Caldura, di cui riporto proprio il periodo iniziale:«Credo che il titolo proposto da Carlo Fusca per questo articolato itinerario di pensieri, esperienze, produzioni e didattica, indichi bene gli intenti dell’autore:un’idea processuale e in divenire dell’operare in ambito artistico. Quel gerundio comunica una visione progressiva dell’arte che si alimenta da più fonti. Le pagine che compongono questo fluire di riflessioni e pratiche trovano, a mio avviso, una puntuale espressione nelle diverse modalità della scrittura, nel mosaico dei testi: dalla descrizione personale e partecipata che sostanzia un’operatività costantemente messa alla prova dei fatti, soprattutto nelle parti riservate alle tecniche di restauro, al tono più pacato e di impronta saggistica delle accurate pagine, scritte in collaborazione con Maristella Trombetta, dove si intrecciano storia, filosofia e teoria della percezione».
Saverio Simi de Burgis, critico, storico dell’arte e docente di prima fascia all’Accademia di Belle Arti di Venezia così si esprime su Fusca:«Un’incrollabile fede nella pittura mossa dalla sua conoscenza e approfondimento attraverso i secoli motiva questo ulteriore contributo teorico di Carlo Fusca che dal mondo di una maturata condivisione creativa muove a voler dichiarare, anche criticamente, la sua completa compenetrazione nell’intramontabile e infinito linguaggio della pittura», mentre la sua collega dell’Università di Bari Maristella Trombetta completa in questo modo il pensiero:«Il fascino seduttivo dell’opera d’arte è certamente il risultato di una magica alchimia e questo lavoro potrà fornire sia agli artisti, attraverso la descrizione delle tecniche e dei materiali, che ai critici, che devono interpretare le scelte stilistiche ed estetiche, la possibilità di ricostruire dall’interno un’opera pittorica coniugando gli strumenti teorici con la conoscenza tecnica».
Le stesse riflessioni di Fusca sulla pittura:« Quante volte è stata decretata la fine della pittura come mezzo espressivo nell’arte contemporanea? Artisti, critici e intellettuali si sono affannati nella descrizione della fine ormai accertata di questo linguaggio pittorico, annunciando la conclusione di una prassi ormai circoscritta e dissolta dall’avvento di nuovi concetti spaziali. L’opera dipinta, ormai considerata obsoleta, doveva lasciare il posto a nuove forme di rappresentazioni multimediali. Ovviamente non era in gioco soltanto il destino di un’esperienza tecnica dell’arte, che da millenni aveva accompagnato lo sviluppo di intere civiltà, ma l’idea di poter fagocitare nuovi linguaggi più vicini alle esigenze del contemporaneo» non fanno che confermarci che l’arte di rappresentare una nostra intuizione - non sempre frutto di fantasia - attraverso il linguaggio delle linee, dei toni, delle masse, il tutto al servizio dei valori cromatici, da sempre ha appassionato l’uomo. La storia ci racconta che in Egitto per la pittura murale veniva adoperato l’affresco a tempera, per poi passare a partire dal quarto secolo all’encausto, che prendeva il posto dei famosi 600 ritratti realizzati su tavole lignee a colori o cera trovati nell’oasi di el-Faiyum, i quali ricoprivano i volti di alcune mummie egizie d’età romana. Nel Medioevo per la pittura murale si preferì l’affresco su intonaco secco, poi ribagnato e completato con ritocchi a tempera, mentre per la pittura su tavola la tempera; fu Antonello da Messina a diffondere la pittura ad olio, nata nelle Fiandre; per adoperare la tela bisogna attendere il XVI secolo e tecniche particolari furono adoperate da Tiziano, impasti a corpo, da Leonardo e Raffaello, impasti leggeri, mentre il fiammingo Rubens è famoso per impasti diluiti e trasparenti; per quanto riguarda la pittura cinese (su tela, porcellana, carta, seta con raffinate tecniche), giapponese ( illustrativa su rotoli) e indiana (miniature) mi limito a segnalarvi che nel volume di Fusca il capitolo dedicato alla carta giapponese Washi, da solo giustifica il possesso del testo.
Altra parte stimolante è quella in cui l’artista Fusca parla delle sue esperienze di restauro e di come si debba partire dalla tecnica con la quale è stato eseguito il dipinto. Molto tempo fa mi sono occupato del restauro e ricordo di aver letto che la pittura va spesso protetta da una velatura di carta sottile per evitare i danni delle cadute di colore, per poi procedere alla pulitura del dipinto con tecnica, pazienza e tanto lavoro. In questo secolo si adopera molto la radiografia per distinguere la pittura originale da quella ‘ridipinta’: termini tipo stratigrafia, macrografia, micrografia e indagini con la lampada di Wood fanno parte del quotidiano per gli addetti ai lavori. Fusca mette a disposizione di neofiti, appassionati e studenti tutte le conoscenze accumulate in questi anni e lo fa con l’umiltà del professionista che sa che ogni giorno impara qualcosa e con disponibilità continua il suo insegnamento a favore dei suoi allievi.
« Il mondo di oggi non ha senso, perché dovrei dipingere quadri che ne hanno?» questa frase viene attribuita a Pablo Picasso (Malaga 1881-Cannes 1973) e non voglio perdermi in interpretazione cervellotiche, mi piace solo ricordare che l’artista ha disegnato nel 1949 - anno per cui nutro simpatia - una splendida ‘Colomba’ per il congresso mondiale sulla pace di Parigi e questo basta ad assolvere l’autore di ‘Guernica’ da qualsiasi ‘processo al genio’.
Lo stesso Fusca informa i suoi lettori che:«L’adattamento del linguaggio pittorico ai nuovi strumenti di comunicazione sarà fondamentale per l’arte contemporanea, pur mantenendo la prerogativa dell’apporto manuale dell’artista, per una rinnovata libertà espressiva», ma mi piace terminare questo percorso, in sostanza dedicato all’arte, con un pensiero di Fabrizio Caramagna, scrittore famoso per i suoi aforismi e conosciuto come ‘ricercatore di meraviglie’, che afferma :«La pittura è mettere a tacere tutti i linguaggi e far danzare la vista».
PS Carlo carissimo ti ho portato due volte nella storia: la prima quando ti ho fatto realizzare il ritratto di Vito Maurogiovanni per la copertina del libro «Come eravamo», dopo aver convinto prima Vito a posare, te ad eseguire e, col tempo, la famiglia dello ‘scrittore barese dei sentimenti’ a ritenere l’idea non grandiosa (come in effetti era!), ma accettabile; la seconda quando ti ho invitato ad illustrare esternamente ed internamente la ristampa anastatica delle 120 copie numerate dei tre volumi della «Terra di Bari» presentati all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, opera che, senza timore di smentita, farà ‘discutere’ gli abitanti del 3000. Tu fin dal secolo scorso mi hai fatto una promessa - non quelle da marinaio che adopera il sigaro come difesa di cui sei Maestro - che ormai da ‘anta-anta’ forse è giunto il momento di mantenere…in acque rigorosamente baresi e non veneziane.