Racconti poetici in dialetto barese


VITTORIO POLITO -
Secondo Francesco Granatiero, il “dialetto non è una parola di cui vergognarsi, è una lingua parlata locale, una lingua senza potere economico-politico-militare, ma con una dignità, una civiltà, una cultura e, per chi lo ha succhiato con il latte materno, il senso profondo dell’esistenza e degli affetti più cari, la lingua-madre madre delle lingue, il sussulto della terra che parla, l’oralità che precede la scrittura e la grammatica”.

È sufficientemente noto che il dialetto fa parte del bagaglio culturale che ognuno di noi porta sulle spalle ed è l’inevitabile segno che ci fa dire che apparteniamo ad un certo luogo, ad un certo tempo e che ci identifica e ci colloca nel posto preciso della nostra storia personale.

Vito Tedesco, appassionato di viaggi, fotografia, vernacolo e tradizioni locali, ispirandosi al corposo dizionario barese/italiano e italiano/barese “Per non dimenticare” (Wip Edizioni), di Gioia, Mele e Signorile, da considerarsi il più completo, ricco e aggiornato di lemmi, che ha fatto la felicità di cultori, poeti, scrittori e simpatizzanti della nostra prima lingua, ha voluto cimentarsi nella scrittura in dialetto barese ed ha pubblicato per la stessa editrice il tascabile “Racconti baresi”.

Senza velleità poetiche, ma per mero esercizio, ha riportato in versi dialettali, con traduzione a fronte, argomenti attinti alla Storia e alle storie di Bari, nonché alle tradizioni popolari, ai suoi ricordi e alle sue emozioni, con l’intento di suscitare l’interesse di altri concittadini per il nostro dialetto e contribuire a far conoscere le storie stesse.

Gli argomenti trattati sono numerosi dal pesce (la ràsce, u pulp, u crùte, le sgagliòzze); alla cucina (la brasciòle, la frettùre); ai giochi (u verrùzze, a sguinge); a Piripìcchie; alla pandemia; alla regine de le barìse (Bona Sforza); a Sanda Necòle; a Federiche seconde; a la Vaddìse, alla Vidua Vidue, a Bari ecc.

Amare il dialetto, usarlo nel nostro quotidiano, insegnarlo ai nostri figli, significa amare noi stessi, significa essere possessori di una grande eredità: l’eredità della nostra storia e delle nostre origini.

Così facendo si contribuisce ad assicurare lunga vita al dialetto.