Afraid rappresenta la colonna sonora dell’anima di Leviosa: malinconica e un po’ impaurita. Partendo dalla parte strumentale curata da Samuele Cammarana, si evince come il pianoforte accompagni la voce in questa danza eterea e la cornice melodrammatica di questo quadro sono i violini.
Il brano è un dialogo con una persona che non c’è più, uno sfogo che racconta un po’ quello che sono le vicende che ogni giorno si sentono in tv e che viviamo sulla nostra pelle. Si parla di femminicidio (“woman in red”), si parla di boschi che bruciano, di lacrime, di bambini che sparano e che hanno perduto i loro sogni a causa di guerre.
“Nessuno fa niente, siamo solo zombie senza anima” recita il brano, racchiudendo un po’ la sofferenza che la canzone stessa vuole raccontare. Uno sfogo senza veli, senza muri; il coraggio di avere paura ed ammettere che il mondo che ci circonda ci uccide silenziosamente, come il morso di un serpente.
Il video - curato da Andrea Fazzino - aiuta a comprendere la paura, il senso di impotenza nel non poter sistemare le cose che ci circondano. Scenografia ideata e pensata dalla stessa artista: una sedia, una rosa nera e tanti petali per terra. Sulla sedia è come se ci fosse seduto qualcuno, colei a cui viene raccontata la canzone. La Rosa è nera, simbolo di morte. Questa è una delle scene più significative, è l’anima di tutto il brano.
Il bambino, recitato dal giovane producer Kombat Kid, rappresenta il nostro vissuto, quello che è dentro tutti noi, ma lo stesso bambino alla fine diventa il male, morso dal serpente.
Il serpente, infatti, rappresenta il veleno che sta uccidendo il mondo, che lo incattivisce; è per questo che alla fine del video i colori sono più scuri, perché riesce a mordere tutti, lasciando che i ricordi più belli svanissero nella paura del male, nella paura del suo veleno.
L’artista parla del brano: Leviosa è un progetto che nacque in piena quarantena, dove tutti urlavano “andrà tutto bene” dandosi forza e speranza. Scrivevo brani, strimpellavo melodie con la mia tastiera, ma ero completamente persa, in un limbo che non comprendevo.
C’è una persona nella mia vita (dovrei correggermi utilizzando il passato ma mi viene complicato), è colei che mi spronò a scrivere ciò che mi frullava per la testa. In classe mi permetteva di usare gli auricolari, premevo play ed entravo nel mio mondo. Solo così riuscivo a scrivere temi, saggi brevi e poesie. Puntualmente mi guardava di sottecchi e poi mi sussurrava: “Claire De Lune?” ed io sorridevo imbarazzata, indovinava sempre. In verità ero proprio ossessionata da quel brano; diventò poi la nostra colonna sonora. Pomeriggi interi a casa sua a studiare insieme, pausa merenda ed una dose di chiaro di luna.
Questa persona per me è un pilastro, la persona che più mi è entrata nel cuore, la persona che più capiva Desirée (quella piccina, quella che già alle scuole medie custodiva per sé tanti segreti tra un attacco di panico e una risata). Qualche mese fa mi sono svegliata con una strana sensazione allo stomaco: era paura.
Chi mi conosce sa che non riesco a parlare delle mie sensazioni, mi è davvero difficile, ho troppi muri; a volte sono così alti che mi viene la claustrofobia, come fossi chiusa dentro una stanza. Come quel giorno. Avevo un forte bisogno di parlare con lei, ma come avete forse ben capito, non avrebbe mai risposto alla mia chiamata.
Tastiera davanti a me, una penna e il cellulare pronto a registrare. Le dita hanno suonato degli accordi, come se stessero danzando con l’aria che riempiva la mia stanzetta, la voce è andata per i fatti suoi e ho iniziato a raccontare a lei tutto ciò che mi passava per la mente. Una liberazione. Dopo mezz’ora avevo il brano davanti, dieci minuti dopo decisi di mandarlo a colui che investe il suo tempo, i suoi soldi e sogni con me. Era fatta.
Avevo partorito Leviosa, avevo abbassato i muri e avevo permesso alle parole di uscire senza ostacoli, spiegando ciò che le mie budella percepivano come ansia. Sono riuscita, con tutto il coraggio che ho in corpo, ad aprirmi col mondo intero.