FRANCESCO GRECO - “Mi piacciono i cani, ma questo qui mi apparì talmente piccolo e inutile che ebbi da ridire sulla sua partenza…”.
Da Argo a Rex, passando per il norvegese Tassen (Hans-Oleg Thyvold), il cane è l’animale più empatico che esista, in grado di comunicare con l’uomo, sintonizzarsi con i suoi stati d’animo e la sua coscienza.
Lo è anche Stickeen fra i ghiacci e la natura selvaggia dell’Alaska. John Muir (Dunbar, Scozia 1838 – Los Angeles 1814), ingegnere, naturalista e scrittore, “precursore dei diritti dell’ambiente”, inventore dei parchi nazionali, è ricordato ogni anno il 21 aprile in tutti gli USA, ne fa il protagonista di “Stickeen” (Storia di un cane), La Vita Felice editore, Milano 2022, pp. 120, € 10, con i bozzetti di viaggio dell’autore (per i quali c’è voluta la liberatoria dell’University of the Pacific), testo inglese a fronte, curatela e traduzione di Saverio Bafaro e Massimo D’Arcangelo. Traduzione ben calibrata: scende nell’intima filologia del testo, porgendolo al lettore.
La prima impressione è dunque sbagliata: la bestia, che gli indiani (gli hanno dato il nome della loro tribù e lo trattavano quasi come una divinità) hanno donato al reverendo Young, è determinata (“Dove vai tu, vado io…”) a salire sulla canoa e l’ingegnere non se ne pentirà perché il suo compagno di avventura è di piccola stazza ma di grande perspicacia, intelligenza, sensibilità e, si scoprirà, anche coraggio (“Il piccolo avventuriero aveva solo due anni, eppure nulla temeva, niente lo scoraggiava… sguazzando nella neve, nuotando in torrenti ghiacciati”).
“Silenzioso, immortale”, gli darà delle lezioni così radicali, così cool (“come i bambini chiedono di essere amati e di poter amare”), che non poteva che comunicarle all’umanità (convinto dalle figlie, dopo che il racconto ha viaggiato per un po’ di tempo in una dimensione orale) affinché non si perdessero.
E bene ha fatto, perché, se Argo riconosce il suo padrone sotto le spoglie cenciose dell’ospite e Rex annusa il criminale e gli si para contro, Stickeen si rivela altrettanto profondo e pratico, tanto da sorprendere continuamente il suo padrone, che ingaggia una sorta di competizione (“Quando eravamo pronti a partire non si faceva trovare, e si rifiutava di venire al nostro richiamo”) quasi giocando a chi si porta più avanti nella sfida alla vita e alla morte (“non chiese mai aiuto né si lamentò, come se, simile a un filosofo, avesse imparato che senza fatica e sofferenza non potesse essere alcun piacere da provare”), quasi da pari a pari, come se l’animale (“considerato una misteriosa fonte di saggezza”) piegasse l’uomo ai suoi voleri in un gioco sottile in cui all’audacia segue la paura (“grida isteriche e singhiozzi e mormorii…”), e viceversa, dentro uno skyline inviolato e sublime che la Natura (“vince sui cani così come sugli uomini”) incontaminata e pura (“la pioggia lo rinvigoriva come una pianta”) dona, e nel farlo chiede all’uomo, e anche alla bestia che lo accompagna (“i suoi sguardi e i suoi versi erano così umani…”), qualcosa in cambio che essi sono ben felici di dare.