FRANCESCO GRECO - Quando le loro parabole si incrociano, il “profeta” sta elaborando il lutto: Ninetto Davoli, l’attore borgataro, ha deciso di metter su casa. La “diva” (“un viso di cera e miele”) viene da un matrimonio anonimo, poi ha sposato l’uomo più ricco della Grecia, l’armatore Aristotele Onassis, che però in silenzio impalma la vedova di John Kennedy (“piccolo borghese americana”, Pasolini).
E’ il 1969 e si incontrano in Turchia (Göreme, Anatolia centrale) dove il “profeta” ha ambientato “Medea”, chiamando la “diva” a interpretarla. Un campione olimpionico (Messico ’68, bronzo salto triplo), Giuseppe Gentile, nel ruolo di Giasone. Gli Argonauti sono comparse locali.
Personalità forti, inquiete, non si accontentano di stabilire le gerarchie di ogni produzione, ma vanno oltre. “Un film dove il passato remoto dell’umanità, barbarico e sacrale, si scontra con l’avvento della ragione”, diviene così un metafilm, un film nel film. Come se anche loro, al pari di Giasone, cercassero qualcosa, magari il vello d’oro, o semplicemente se stessi nella babele del momento storico di quel tempo escatologico in cui si abbattono gli altari e le divinità, senza sapere però cosa metterci.
“Il profeta e la diva”, di Giuseppe Manfridi, Gremese, Roma 2022, pp. 304, € 19,50 ci porta sul set del film e ci fa respirare il clima, gli aromi forti, intensi, le sospensioni e le carsicità delle psicologie. Forse Pier Paolo Pasolini ha cercato Maria Callas proprio per questo. O anche per questo, annusandola, come fanno gli amanti.
Eros e smarrimento, “incantesimi e sortilegi”. Odore di seme e di luna direbbe Neruda. Sostanza dell’epos, l’ethos del regista friulano. Già alle prime pagine ti imbatti, t’imbratti in qualcosa di primordiale e possente, quell’energia ancestrale che purifica il mondo, la vita, l’uomo. Che si respira fra la troupe. E il transfert sottinteso per cui la Callas (che ha perso un bambino dell’armatore) è Medea e Medea la Callas, immortale Euripide.
Da personaggi tragici, non possono non innamorarsi, con la disperazione lacerata e ispida di chi sa di non poterlo fare, almeno non nei codici culturali dominanti. Pochi anni dopo (1972) verrà un’altra Maria, quella di “Ultimo tango a Parigi”.
Ma il “profeta” e la “diva” forse non sono pronti per un salto nel buio della stessa potenza semantica (diversi i postulati estetici), pur tentati, annusando il miele delle sensuali notti orientali.