Sostiene Calenda, “visioni” per un futuro che è già qui


FRANCESCO GRECO -
Da trent’anni siamo vittime di una fake-news, una curiosa distopia, una leggenda metropolitana che, pervasiva, si è cristallizzata in archetipo. Che la Storia è finita (Fukuyama, 1992), non c’è nulla di nuovo da aspettarsi, il liberismo ha vinto (il mercato regola tutto, la merce affollata di semantica e misticismo), il “Patto di Varsavia” esausto disfatto, la globalizzazione è la sola “fede” possibile, ogni conflitto è faccenda di satrapie locali.

Se una bugia ripetuta all’infinito diventa solare verità, ci siamo addormentati al suono della nostra stessa impostura.

Ma a svegliarci ex abrupto dall’ipnosi ci hanno pensato prima (2020) un virus mutante che ha avvolto il pianeta a ogni meridiano e parallelo, poi (2022) una guerra asimmetrica che, a vari livelli, echi e risonanze, comporta riflessi a ogni latitudine e longitudine in un mondo virale e iperconnesso.

L’Occidente, che per una serie di circostanze favorevoli, si era ritrovato al centro della Storia, vantando i suoi valori e la sua cultura superiori, è entrato così in una dimensione dominata dal relativismo che disfa secoli di narrazioni.

Tutte o quasi le categorie culturali e politiche del “prima” sono così scivolate in modo soft in un cono d’ombra di relativismo, destrutturate. Una sorta di Grande Reset.

Carlo Calenda è uno dei pochi politici oggi sulla scena capaci di analisi pregnanti, nette di ideologie e propaganda, di “visioni” (weltanschauung): dal “particolare” all’universale e viceversa, in un panorama di grilli parlanti che inseguono farfalle solo per eccitare la loro nicchia di consenso (alla Di Battista, uno fra tanti) e continuare a esistere come casta avida di benefit, ma non indicano alcuna strategia per le patologie vecchie e nuove e gli instabili equilibri del sistema-paese, il patto sociale disarticolato.

Parlamentare europeo, un passato di manager in aziende global e local, ministro (Mise) di tre governi, il segretario di “Azione” (primo partito a Roma 2021), ha colto l’asprezza di tale deriva, l’amaro crepuscolo degli dèi all’orizzonte e in un saggio appassionato quanto sincero (declinazion e politico-filosofica-estetica), abbozza delle idee per il tempo che verrà in un Paese dove vige, impera il carpe diem, proponendole all’afasico dibattito politico reticente e autoreferenziale.

“La libertà che non libera” (Riscoprire il valore del limite), La nave di Teseo, Milano 2022, pp. 196, € 18,00 (Collana “i Fari”) riprende e approfondisce le argute speculazioni dei lavori precedenti: “Orizzonti selvaggi” (2018) e “I Mostri” (2020), aggiornandole al tempo in cui si combatte con la pandemia e nelle case giunge il fragore cupo delle bombe.

Parrà stravagante e ucronico in tempi in cui la cancel culture dal passo marziale, travolge tutto e tutti (con la stessa ferocia dei libri bruciati da Hitler e l’Index Librorum della Chiesa), ma la complessa storia di Roma (l’età imperiale), la sua politica e cultura, l’architettura sociale, possono essere utili a ritrovare il mainstream e ricomporre il mosaico dopo la violenta, infida crasi del senso e della percezione che viviamo (e che manco legittimiamo).

Fra l’altro, in quello che si trasfigura in un “manifesto politico” scagliato nel futuro, il politico ci dice dell’importanza della memoria, senza la quale non c’è identità: se non sappiamo chi siamo, da dove veniamo, come possiamo vagheggiare un futuro? Siamo solo plancton schizofrenico che vaga nell’aria.

Disfatto dall’hybris, il Paese, l’Occidente, possono essere ricostruiti dalla philia pitagorica e platonica. Ma, sostiene Calenda, occorrono nuovi paradigmi analitici e di decodificazione, una sorta di vello d’oro: scendere dalla nuvoletta iperuranica della superiorità culturale su cui siamo pateticamente assisi e rimodulare l’approccio (meno ideologico) alle grandi questioni e, soprattutto, una nuova classe politica all’altezza della mission impossible.

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