LIVALCA - Il cancro del pancreas veniva definito dagli addetti ai lavori, dal momento che uscivano quasi sempre sconfitti dalla impari ed impotente lotta, una “patologia-tragedia”. Oggi la situazione è migliorata grazie al contributo determinante dei centri di diagnostica precoce e di terapie chemioterapiche, ma la sopravvivenza è sempre limitata nel tempo: circa 20 mesi in casi al I e II stadio (operabili), di 6-11 mesi in casi di tumore localmente avanzato e infiltrante e di 3-6 mesi per il IV stadio.
Un tipo di tumore - questo - che si contraddistingue per rapida diffusione, paventata sinergia tra cellule nervose e cellule pancreatiche, grazie alle citochine prodotte: simbiosi cancro-sistema nervoso periferico e per scarsa vascolarizzazione dell’organo (non c’è un’arteria dedicata e l’apporto ematico è assicurato da vasellini provenienti da duodeno, milza, ecc… il pancreas “ruba” sangue ai vicini), e del tumore per cui i farmaci somministrati per via generale vi giungono a malapena.
Un tentativo di ovviare agli inconvenienti, con lo scopo dichiarato di far giungere i farmaci a livello del tumore e consentir loro di agire per più tempo in continuità ed in dosi complessivamente inferiori, è stato fatto, purtroppo finora in un solo caso, dal dr Cosmo Damiano Gadaleta e coll., U.O.C. di Oncologia Interventistica dell’Istituto Oncologico “Giovanni Paolo II” di Bari e pubblicato sull’autorevole rivista “Frontiers in Oncology” (31.3.2022).
Una donna di 68 anni, sofferente di ricorrenti dolori addominali ed altra sintomatologia, riconosciuta affetta da “adenocarcinoma duttale pancreatico, infiltrante duodeno, coledoco arteria e vena mesenteriche sup.”, con “very poor prognosis”.
La strategia instaurata è stata: modificare l’impianto vascolare dell’organo “chiudendo” la milza (embolizzazione) e rendere l’arteria splenica come unico accesso al pancreas; chiudere tutte le altre connessioni vascolari, porre un catetere a permanenza che porti dall’esterno, il farmaco (i) in concentrazioni locali 100 volte superiori a quelle di altre vie e, grazie ad una pompa, lo faccia giungere, a goccia lenta, in continuità , sì che il tempo di contatto consenta di colpire i cloni nascenti del tumore.
La paziente aveva finito appena 2½ cicli di trattamento quando la sua situazione si aggravò rapidamente fino alla morte. L’esame autoptico addebitò a legionellosi (altri casi nel nosocomio) la causa della morte ed escluse qualsiasi interferenza da parte della terapia sperimentale in atto.
La sorpresa venne dal reperto macro e microscopico della regione pancreatica: “Regressione del tumore e delle sue interferenze su organi e sistemi”.
Una rondine non fa primavera! Ma, se le rondini non arrivano, primavera mai sarà .
La sperimentazione in corso venne sospesa in attesa del verdetto autoptico, ma essa non è stata ripresa a distanza di un anno ed il dirigente si è dimesso dal lavoro. Chi continuerà quel solco ‘fortunato’ che era stato tracciato grazie all’esperienza pluriennale di équipe esperta di radiologia interventistica e di oncologia?
Ci sembra il caso di mettere da parte Giovanni Pascoli e il suo “X agosto” :«Ritornava una rondine al tetto/ l’uccisero cadde tra spini/ ella aveva nel becco un insetto: la cena dei suoi rondinini/” e di rivolgerci verso un aforisma di Paul Valéry «Meglio essere una rondine che una piuma», perfezionata da Luciano De Crescenzo nei “Pensieri di Bellavista” in cui in sostanza affermava che tutte e due volano, ma la prima dove vuole lei, la seconda dove vuole il vento.
Se fosse possibile che rondine e piuma seguano il vento migliore, nell’interesse di tutti, sarebbe un atto d’amore verso le ‘pene’ del Creato. Probabilmente non sarà questo il caso, ma le grandi scoperte sono tutte avvenute per l’istinto e la sensibilità di uomini che operavano andando oltre: il fuoco, l’elettricità , l’antibiotico, il vaccino, il DNA…