Elvis: la recensione
FREDERIC PASCALI - L’immaginario è qualcosa che radicato in noi governa, invisibile e intangibile, l’ardore delle nostre emozioni miscelando ricordi e aspirazioni. La descrizione di un mito, assoluto nel caso di Elvis Aroon Presley, non prescinde dall’agire su questo presupposto. Baz Luhrmann fa suo l’intento prendendo le mosse da un binario parallelo, quello relativo alla biografia del colonello Tom Parker, il controverso manager del re del rock. Non una novità assoluta ma la messa in scena di un punto di vista in grado di garantire diverse visioni prospettiche e forse anche quel necessario disincanto, limite in genere invalicabile per le derive melodrammatiche.
Una produzione dagli intenti ambiziosi, quella di Luhrmann, che per buona parte della pellicola, in specie nella sua prima metà, complice anche una messa in scena visiva radente gli effetti tipici del Marvel Universe, opera come una sorta di centrifuga del tempo, capace di miscelare tutti gli elementi della vicenda condensandoli in un’unica sintesi governata dalla musica.
Lo straordinario Tom Hanks, nei panni del colonello Parker, si ritrova contrito in un personaggio che per larghi tratti assume le sembianze di un archetipo a metà tra il Mentore e il Mutaforma, senza tuttavia riuscire ad abbandonare del tutto l’involucro macchiettistico confezionato dalla sceneggiatura dello stesso Luhrmann con Sam Bromell, Craig Pearce e Jeremy Doner.
Di notevole rilievo anche la qualità recitativa di tutti gli altri interpreti con Austin Butler decisamente memorabile. Il suo Elvis è una maschera sincera che calamita le peculiarità complesse del re del rock con un’intensità unica e coinvolgente. Framezzato di continui flashback, il suono diegetico ed extradiegetico circoscrive una cornice la cui materia si erige su sentimenti inamovibili costruiti dai ricordi e dalle emozioni legate al mito. Un suggello che in parte fa dimenticare qualche divagazione di troppo e preme sull’acceleratore al momento giusto, con la tensione per la tormentata esistenza di Elvis che diventa palpabile fino a reclamare, immaginando le note di Always in my mind, l’impossibile prolungamento di un sogno irripetibile.