Dalla Polis al Carro di Tespi all’algoritmo di 'Nasca': il teatro di Ippolito Chiarello
FRANCESCO GRECO - Cinema, tv, ma soprattutto teatro svelano
l’eclettismo dell’artista. Ma non per ricalcare
sentieri già collaudati: sarebbe troppo facile,
bensì per osare sempre nuovi orizzonti, formule
innovative, una ricerca continua. La
sperimentazione è infatti la cifra caratterizzante
della sua arte vissuta con grande professionalità.
Storia di Ippolito Chiarello, dalla Terra d’Otranto (quella di Carmelo Bene e di Eugenio Barba, per dire), una carriera di trent’anni nello spettacolo, sempre col cuore di un bambino, l’entusiasmo del neofita, il piglio audace di chi si mette alla prova ogni giorno, a ogni spettacolo, di chi vive l’arte come una sfida eccitante, mutando di continuo la sua grammatica e postulati estetici.
Infatti Ippolito da Corsano (Lecce) si definisce: “Attore, agitatore culturale, operatore teatrale, provocatore sociale”, per poi calibrare meglio: “Il termine teatro mi sta troppo stretto, anche se il termine è quello”.
Sempre in cerca di nuovi linguaggi espressivi, di tematiche sorprendenti, di un pubblico diverso, eterogeneo, dal centro alla periferia, di cui emozionare i cuori, folgorare le menti. Come i cavalieri medievali, a ogni spettacolo di cui è autore, regista, interprete, getta il cuore oltre l’ostacolo.
Chi ha qualche ruga conquistata vivendo sempre in trincea, lo ricorda nei pomeriggi domenicali nei programmi-cult di Rai3, anni ’90, quando Angelo Guglielmi sperimentava un’altra tv, intelligente, oltre il feticismo, il nichilismo, l’autoreferenzialità. Format purtroppo rimasti unici.
Poi rammenta quel cammeo nel delizioso ne “La Santa”, opera prima del brindisino Cosimo Alemà (2013), un successo alla Festa del Cinema di Roma: il panettiere dal cuore d’oro che accoglie, sfama, nasconde il bandito inseguito dalla legge perché ha messo le mani sul tesoro di santa Vittoria, protettrice dei contadini, un film gioiello che modula gli istinti antropologici dell’uomo mediterraneo. E lo abbonda di pane caldo prima che torni alla macchia.
E poi la sua creatura, “Nasca il teatro” (2017), sede della compagnia “Nasca Teatri di Terra”, che di recente ha preso una nuova casa a Lecce (via Siracusa), di cui parla con tenerezza come fosse un essere vivente.
Agorà polisemica in quanto a proposte artistiche (anche presentazioni di libri, ultimo Saverio Raimondo “Memorie di un elettore riluttante”, Feltrinelli), un concept innervato semanticamente, che contiene tutta la ricca ontologia del fare teatro, da Eschilo e Aristofane ai convivi dell’Urbe imperiale, passando per il medievale Carro di Tespi che vaga per le piazze assolate di paese donando ai popoli incanti, emozioni, sino agli algoritmi in uso nell’arte scenica di oggi e domani chissà come si illuminerà il cuore dell’uomo.
Altri step, muri del suono infranti: il trasgressivo Fanculopensiero ‘off e il barbonaggio teatrale (citazione dello scalcinato Carro di Tespi carico di vita, attrezzi e magia), di cui spiega a se stesso la mission intima: “Faccio l’attore e mi alleno a creare una situazione sentimentale con il pubblico”. E ogni volta è un miracolo sottolineata da grande empatia: a Roma, al Teatro Torlonia, la sintonia con grandi e piccini, emozioni che restano, anche negli attori, oltre che nel pubblico. L’attore calibra meglio il suo essere artista, la via (del sale) originale che percorre, la cifra strettamente personale: “In scena cerco di tradurre la mia poetica e politica d’artista e di operatore in una ritrovata e riconosciuta verità”.
Barbonaggio divenuto, nel frattempo, tema di accademia. I “delivery” teatrali (lo spettacolo chez-moi, la montagna va da Maometto) inventati da Ippolito per combattere la cupa tristezza dei lockdown della pandemia che per fortuna ci siamo messi alle spalle, trasfigurati da Mariella Minosi nella tesi appena discussa brillantemente all’Università di Messina.
Il Mediterraneo è sempre il primo a osare nuovi codici espressivi, a reinventarsi, a cercare altro, a trasfigurarsi: è un archetipo secolare. Per la serie echi e risonanze, il teatro immortale, che da millenni sfiora dolcemente il cuore dell’uomo e del popoli, può tutto e andare anche oltre…
Storia di Ippolito Chiarello, dalla Terra d’Otranto (quella di Carmelo Bene e di Eugenio Barba, per dire), una carriera di trent’anni nello spettacolo, sempre col cuore di un bambino, l’entusiasmo del neofita, il piglio audace di chi si mette alla prova ogni giorno, a ogni spettacolo, di chi vive l’arte come una sfida eccitante, mutando di continuo la sua grammatica e postulati estetici.
Infatti Ippolito da Corsano (Lecce) si definisce: “Attore, agitatore culturale, operatore teatrale, provocatore sociale”, per poi calibrare meglio: “Il termine teatro mi sta troppo stretto, anche se il termine è quello”.
Sempre in cerca di nuovi linguaggi espressivi, di tematiche sorprendenti, di un pubblico diverso, eterogeneo, dal centro alla periferia, di cui emozionare i cuori, folgorare le menti. Come i cavalieri medievali, a ogni spettacolo di cui è autore, regista, interprete, getta il cuore oltre l’ostacolo.
Chi ha qualche ruga conquistata vivendo sempre in trincea, lo ricorda nei pomeriggi domenicali nei programmi-cult di Rai3, anni ’90, quando Angelo Guglielmi sperimentava un’altra tv, intelligente, oltre il feticismo, il nichilismo, l’autoreferenzialità. Format purtroppo rimasti unici.
Poi rammenta quel cammeo nel delizioso ne “La Santa”, opera prima del brindisino Cosimo Alemà (2013), un successo alla Festa del Cinema di Roma: il panettiere dal cuore d’oro che accoglie, sfama, nasconde il bandito inseguito dalla legge perché ha messo le mani sul tesoro di santa Vittoria, protettrice dei contadini, un film gioiello che modula gli istinti antropologici dell’uomo mediterraneo. E lo abbonda di pane caldo prima che torni alla macchia.
E poi la sua creatura, “Nasca il teatro” (2017), sede della compagnia “Nasca Teatri di Terra”, che di recente ha preso una nuova casa a Lecce (via Siracusa), di cui parla con tenerezza come fosse un essere vivente.
Agorà polisemica in quanto a proposte artistiche (anche presentazioni di libri, ultimo Saverio Raimondo “Memorie di un elettore riluttante”, Feltrinelli), un concept innervato semanticamente, che contiene tutta la ricca ontologia del fare teatro, da Eschilo e Aristofane ai convivi dell’Urbe imperiale, passando per il medievale Carro di Tespi che vaga per le piazze assolate di paese donando ai popoli incanti, emozioni, sino agli algoritmi in uso nell’arte scenica di oggi e domani chissà come si illuminerà il cuore dell’uomo.
Altri step, muri del suono infranti: il trasgressivo Fanculopensiero ‘off e il barbonaggio teatrale (citazione dello scalcinato Carro di Tespi carico di vita, attrezzi e magia), di cui spiega a se stesso la mission intima: “Faccio l’attore e mi alleno a creare una situazione sentimentale con il pubblico”. E ogni volta è un miracolo sottolineata da grande empatia: a Roma, al Teatro Torlonia, la sintonia con grandi e piccini, emozioni che restano, anche negli attori, oltre che nel pubblico. L’attore calibra meglio il suo essere artista, la via (del sale) originale che percorre, la cifra strettamente personale: “In scena cerco di tradurre la mia poetica e politica d’artista e di operatore in una ritrovata e riconosciuta verità”.
Barbonaggio divenuto, nel frattempo, tema di accademia. I “delivery” teatrali (lo spettacolo chez-moi, la montagna va da Maometto) inventati da Ippolito per combattere la cupa tristezza dei lockdown della pandemia che per fortuna ci siamo messi alle spalle, trasfigurati da Mariella Minosi nella tesi appena discussa brillantemente all’Università di Messina.
Il Mediterraneo è sempre il primo a osare nuovi codici espressivi, a reinventarsi, a cercare altro, a trasfigurarsi: è un archetipo secolare. Per la serie echi e risonanze, il teatro immortale, che da millenni sfiora dolcemente il cuore dell’uomo e del popoli, può tutto e andare anche oltre…