'The Fabelmans': la recensione


FREDERIC PASCALI
- I ricordi popolano a lungo le nostre menti, ci influenzano e a volte indirizzano le nostre scelte fino a legarle a loro indissolubilmente. Un po’ il senso della vita che decide quello che sarà di noi, un po’ l’orientamento di un film firmato Steven Spielberg e venato di molti richiami autobiografici.

La storia dell’adolescente Sammy Fabelman è la narrazione degli esordi di un genio del cinema alle prese con le contraddizioni di due genitori molto diversi tra loro e incapaci di comprendersi fino in fondo. Sammy, compresso tra Burt, il geniale padre ingegnere e Mitzi, la madre artista con una carriera come pianista e ballerina mai veramente decollata, spende tutte le sue energie per quel mondo di celluloide che lo affascina fin da piccolo.

Il più grande spettacolo del mondo di Cecile B. DeMille è il progenitore cruento della sua passione, con la scena più violenta ricostruita con dei modellini e poi filmata per rivederla ed esorcizzarla a piacimento. La fine dell’adolescenza, attraverso le difficoltà tipiche di quel punto di svolta, sancisce poi la bontà del suo talento e l’imprescindibile legame con il mondo del cinema.

The Fabelmans è il resoconto, ben girato e ben sceneggiato, da Spielberg stesso con il fedele Tony Kushner, di un trascorso biografico che ha deciso il seguito della propria vita e delle proprie passioni. L’afflato intimistico è percorso con una tecnica visiva e di ripresa come sempre impeccabile. La fotografia di Janusz Kamiñski non lascia alcuno spazio alla critica e fa il suo dovere fino in fondo e nella consueta maniera eccelsa.

Quello che lascia un po’ interdetti, e ostracizza senza incertezze l’uso della parola “capolavoro”, è l’eccessiva schematicità di un’opera che, paradossalmente, rende troppo algide proprio le emozioni che la descrizione di sentimenti così profondi generano.

Gli stessi protagonisti, nonostante un’interpretazione indubbiamente all’altezza, in qualche maniera risultano un po’ succubi e ingabbiati in ruoli tagliati su di un canovaccio moralistico mixato dalla mentalità dell’America degli anni ’50 e dell’inizio dei ’60 del Novecento e dagli intendimenti personali elaborati da Spielberg stesso.

La Mitzi di Michelle Williams, il Burt di Paul Dano e persino il Sammy di Gabriel LaBelle ne risultano condizionati fino a lasciare, nella loro interpretazione, la sensazione di qualcosa di inespresso.

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