Dostoevskij sulla “Route 96 bis”



FRANCESCO GRECO - “Adesso che ti sei riconciliato con i posti del tuo passato…”. 

Subito i nostoi, il mito dell’eterno ritorno nel gineceo, nel ventre materno, nella terra calda dove il tempo scorre lento.

Lo smarrimento cosmico di Leopardi, il tormento dei personaggi di Dostoevskij, la perdita dell’innocenza di Faulkner. E ancora: il disagio nella modernità vissuta nei suoi aspetti più ispidi di Charles Dickens, poi rimodulato da Pasolini oltre un secolo dopo: il progresso ha costi salati, il disancoraggio dalle proprie radici, identità, memoria in primis, per omologarsi a format estranei. 

Quando Sisina emigrata in Germania rifiuta di imparare il tedesco e di munirsi di lavatrice e lavastoviglie cosa fa se non ribellarsi a modo suo a tutto questo che potremmo definire globalizzazione, all’omologazione?
“Siamo abituati alla cuccia calda della famiglia e non ce ne sappiamo nè vogliamo staccare…”, riflette Silvia a mò di manifesto di chi resta, come il capostazione Minuccio, per poi pentirsene?

 C'è anche questo, ma non solo, in “Route 96 bis”, di Giovanni Bracco, Porto Seguro Editore, Firenze 2023, pp. 394, € 19.00. Tre sapidi racconti lunghi densi di allegorie e metafore, di scirocco e smarrimento, messi giù con un mood socio-antropologico, tessuti con leggerezza e a tratti poesia, benché amara. 
   Hemingway diceva che gli scrittori migliori vengono dal giornalismo: Bracco (lucano) dirige la redazione romana del “Sole 24Ore”. Infatti la sua prosa è asciutta, priva di barocchismi e metafisica: una pennellata e via.

   Racconti i cui avvenimenti e gli eventi delle vite dei personaggi nella loro community fra Serracupa e Casteldiano (come il Macondo di Garcìa-Màrquez, l’Eboli di Carlo Levi, la Donnafugata del Gattopardo, riscritti al tempo dell’algoritmo) si intrecciano in un plot narrativo di grande pathos e coinvolgimento sensoriale, come di una sensualità avvolgente. 

Trasfigurandosi in altrettanti archetipi con cui solo chi conosce storia e memoria del pianeta Sud (che fu Regno) può sintonizzarsi in una dialettica magmatica ricca di luce e di energia.
   Disfatta la civiltà contadina, prosciugata l’energia possente che teneva uniti gli uomini, i popoli, l’universo, ecco il mondo post moderno atomizzato, popolato da lupi solitari, un fitto plancton interstellare, ognuno con la sua patologia, carezzati dal dolce sole di piazze metafisiche dalle ombre corte ma dal risentimento turgido verso la vita. 

La Valle del Bradano e la via che la solca come un taglio nella tela di Fontana, appunto, Roite 96 bis, con la sua fauna antropologica, diventa così un denso grumo filologico e semantico, una tavolozza dai colori dolci e folli, esistenze spossate (solo qui l’imbianchino si chiama pittore e muore dopo essersi dato l’immortalità) nell’illusoria vitalità della provincia di riti e miti, che contiene il Sud del III millennio, un film barocco espressionista, quasi un bestiario felliniano che tiene magicamente avvinti sino all’ultima riga.  

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