FRANCESCO GRECO - Là dove nell’altro secolo pulsava una varia umanità di emigranti che partivano con la valigia di cartone e il cuore gonfio di speranza e di futuro, pendolari e studenti alle scuole superiori e all’Università , oggi ecco erbacce alte, vetri rotti, bar/tabacchi/edicola e biglietterie chiusi, parcheggi desolati e vuoti, sale d’attesa senza ombre. Stamane sibila un perfido vento di scirocco che accentua la solitudine e solleva una polvere fastidiosa per gli occhi e il cuore.
Benvenuti alla stazione di Tricase (Lecce), gelida allegoria di una Terra d’Otranto che pare immersa in una cupa nuvola di abbandono, un harakiri annunciato, non dichiarato, perciò ancor più devastante. Che nessuno racconta, perché occorrono narrazioni gratificanti quanto false. Una vocazione al suicidio estranea ai cromosomi.
E nessuno dice niente: non una sillaba i politici che pure sfruttano questa terra per le loro carriere e fare la bella vita, il sindacato coreografico ormai autoreferenziale, gli intellettuali della Magna Grecia chiusi nella turris eburnea a pubblicare sempre gli stessi lai.
E’ la macchina del tempo: il sol dell’avvenire promesso ieri, oggi ripromettono quello che non hanno mai mantenuto. Tutto a posto, niente in ordine, dì che ti mando io. Il responsabile di una stazione Sud-Est (nessun servizio la domenica e le feste comandate, quando la gente si muove, italian style) qualunque sulla Lecce-Novoli, ha smesso berretto, paletta e fischietto e ci racconta la sua vita con lo sguardo triste, la voce incerta mentre descrive il degrado della sua “stazione” (abitava al casello, case grandi, comode, soleggiate), il loro triste y solitario final. E’ andato in pensione dopo 50 anni di onorato servizio ad alzare e abbassare le sbarre all’arrivo e partenza della littorina, fare i biglietti, abbonamenti agli studenti, info ai turisti (oggi i lavoratori Sud-Est sono in sciopero).
Il regista Alfredo De Giuseppe ha girato un documentario di una decina di minuti: “C’era una volta una stazione”, riferito a quella di Tricase (foto).
Eppure community di ragazzi (anche così si declina la restanza oltre le passerelle mediatiche) si erano inventati un mood “culturale” per auto-occuparsi (l’ascensore sociale è arrugginito) creando intorno alle stazioni interessi e passioni, o semplice accoglienza: sono stati scacciati come untori fuori mainstream.
“Nata e cresciuta in un casello ferroviario, tre generazioni in Sud-Est, vedere queste stutture in abbandono, inclusa casa mia, è davvero un gran dolore…” (Stefania Schirinzi). “Sono in Sud-Est da 41 anni e prima di me mio padre, quanto mi fa rabbia vedere quei luoghi…” (Raffaele Rizzo). Aggiunge Katia Manco: “Il Gruppo Ferrovie dello Stato ha tolto a tutte le associazioni che hanno recuperato e gestito case cantoniere, stazioni e caselli abbandonati da decenni la possibilità di continuare progetti innovativi e sostenibili. Ma nonostante siano passati due anni dalla chiusura della stazione di Otranto, stamane ho ricevuto l’ennesima richiesta di ospitalità di alcuni viaggiatori fuori stagione…
Al momento tutti gli edifici e gli spazi chiusi sono in stato di totale abbandono. Non sono una nostalgica, ma quando ci penso mi viene il magone… E tanta rabbia, perché penso alla morte dei luoghi a discapito delle comunità . Un disastro! Penso – aggiunge Katia - a tutto il lavoro, gli sforzi, i sacrifici di chi quei luoghi li aveva riportati in vita, alle mancate opportunità per il territorio, all’arroganza e al compiacimento di alcune istituzioni che chiudono gli edifici e li abbandonano.
Otranto (2015-2020, associazione Oikos, progetto Mentelocale) è stata una casa per viaggiatori da ogni parte del mondo e punto di incontro per tanti che vivono e animano questa terra, e che continuare ad amare, nonostante tutto…”.
Stessa rabbia per Gagliano dove Paolo Mele si era inventato un contenitore d’arte, LaStation di Random. E ancora: Andrea Verardo, Km 97, Floriana Guida, Associazione Naturalmente a Sud (Manduria) e tante altre realtà soffocate nella culla. L’aria è pesante, Tanathos nell’aria. In questo contesto degradato e indifferente, fatalismo al quadrato, stanno per arrivare le deliranti quattro corsie della SS 275, opera pensata 36 anni fa, quando non c’era la xylella, né gli insediamenti fotovoltaici a terra che segnano cupi il territorio, uccidendo la vita intorno. Per “La Repubblica” del 17 gennaio scorso, “Puglia a rischio desertificazione, così scompaiono le bellezze turistiche della regione, Salento tra i territori più colpiti”. Impatto destrutturante. E il Leviatano prevede trivelle in cerca di esigui giacimenti di gas e pale eoliche in mare fra Otranto e Leuca, così anche il turismo è sistemato.
Se non hai un modello di sviluppo, sei allo sbando, te ne offrono di antitetici. Come a Taranto. Però, a ogni formica che muore, invocano le 4 corsie. Per l’informazione- rubbish la 275 e “la strada della morte” e la “stramaledettissima”. Che importa se i dati dicono l’esatto contrario? Gli eretici sono narrati come “antidemocratici”, magari da qualche ducetto che nell’album di famiglia ha un gerarca fascista.
Eppure, ultimo rapporto Polstrada, nel 2022 ci sono stati meno incidenti e meno vittime. Non solo, Coldiretti, citando dati Ispra, dice che il Salento è primo in Puglia per consumo di territorio: persi 40mila ettari, ingoiati da cemento, abbandono (causa xylella), fotovoltaico.
E mentre i sindaci si preparano a svendere la loro terra per il biblico piatto di lenticchie, a chi smania per le 4 corsie, i contrari (ma con giudizio) ripetono da anni che non sono esse a fare la sicurezza: se ti metti al volante pieno di alcol, droga, parli al cellulare o ti fai i selfie, vai a sbattere anche su 40 corsie. Con le 4 corsie non resterebbe manco un giardino dove coltivare un limone se hai mal di pancia e due foglie di basilico per la salsa…