LIVALCA - Antonella Bartolo, sorella di Bruno compagno di liceo al Flacco, mi ha fatto pensare a quella frase un poco ‘enfatica’ che recita «Dietro ogni figlia speciale, c’è un padre davvero eccezionale» in modo che possa rendere un giusto tributo alla figlia, nel nome del padre (… chi mi conosce sa che ho due figlie…).
La verità vera è che solo le donne hanno costanza e fermezza per portare a termine imprese che richiedono non solo impegno fisico, ma anche diligenza e pazienza per consultare e recuperare materiale: vi è un detto latino che recita «Quod non potest diabolus, mulier evincit» dove, nel caso specifico, diabolus sta per difficoltà e mulier per donna.
La Bartolo che vive dal 1975 a Torino, città in cui si è laureata in Scienze Politiche, vanta collaborazioni freelance con alcune testate giornalistiche piemontesi e possiede una forte ed innata passione per lo scrivere che è stata la molla che l’ha indotta a pubblicare il volume «…e Croce gli disse: vèstiti da fascista! Biografia di Giuseppe Bartolo antifascista, azionista, studioso di meridionalismo» (Edizioni Giuseppe Laterza srl, pp. 369, marzo 2023, € 25,00), con prefazione del senatore Ferdinando Pappalardo.
Del professore nato ad Acquaviva delle Fonti mi appaga segnalare che qualche anno fa ha dato alle stampe, per i tipi della Progedit, un interessante volume dal titolo «L come lettura»: un inno a considerare la lettura un piacere… che, come tutti i piaceri, può nascondere qualche ‘pericolo’. Il discorso è complesso e riguarda anche i nati degli ultimi 30 anni troppo presi a considerare eroi coloro in grado di catturare maggiori consensi. Il docente di “Teoria e Storia dei Generi letterari” dell’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, in una prefazione onesta e mai indulgente così si esprime: «Antonella Bartolo non ha rivelazioni da fare, torti da rinfacciare, ingiustizie su cui recriminare; a muoverla è innanzitutto, e più modestamente, un imperativo morale e sentimentale, il sincero bisogno di onorare la figura del padre Giuseppe (familiarmente detto Peppino), insieme alla volontà di ravvivarne il ricordo, nella convinzione che la traccia del suo passaggio in questo mondo contenga un insegnamento ancora attuale». La prefazione di Pappalardo ha un titolo “Un insegnamento sempre attuale’ che, a mio modesto parere di persona frequentatore dell’ambiente editoriale, avrebbe potuto essere il titolo del libro e, forse, in questo modo dare più forza a quel gruppo di giovani intellettuali con idee liberal-socialiste che frequentavano e si identificavano in Tommaso Fiore (Altamura 1884-Bari 1973).
Ad agosto dello scorso anno ho ritrovato tra le carte di mio padre una copia del volume «Un popolo di formiche» e mi sono ricordato che il professore venne da noi quando stavamo ancora in via Crisanzio (sono, quasi, sicuro si tratti dell’estate del 1968) accompagnato dalle tante menti politiche che erano presenze frequenti in azienda. Lui, nonostante avesse superato gli 80 anni era lucido, pacato e salutò tutti con quella cordialità che hanno solo le persone che amano l’umanità con la giusta umiltà, ricordò a Mario Cavalli che aveva collaborato con la rivista Clizia ed era interessato ad un numero del 1957: mio padre lo accompagnò nel suo regno dove vi erano due mobili in legno ‘antichissimi’ ma perfettamente tenuti in ‘attività’, in cui custodiva tutte le pubblicazioni stampate: dopo pochi minuti, colui che aveva a cuore le condizioni dei contadini del Mezzogiorno d’Italia, ebbe la sua copia con l’articolo che era un breve ‘omaggio’allo scrittore sardo Giuseppe Dessì. Per giunta scambiando impressioni con Tommaso Fiore - sempre più a suo agio in un ambiente in cui, a distanza di pochi minuti, veniva gente impegnata nella stampa di testate locali, in anni in cui un giornale era considerato “La coscienza di una nazione” (Camus) e “Una nazione che parla a se stessa” (Miller) - appresi che aveva studiato a Conversano e si meravigliò quando gli attestai che non solo avevo Norba nel cuore, ma avevo conosciuto mons. Gallo (ma questa è un’altra storia).
Aurelio Papandrea, uno dei presenti, parlò di rieditare il volume «Un popolo di formiche» che, pubblicato nel 1952 da Laterza, aveva vinto il Premio Viareggio; Fiore precisò che si era impegnato con Macinagrossa e, infatti, il volume uscì a novembre del 1968 per i tipi dell’Adriatica Editrice. Il volumetto conteneva, oltre una spartana ma fedele prefazione di Gabriele Pepe, quattro lettere scritte da Fiore, tra gennaio e luglio del 1925, a Piero Gobetti (Torino 1901-Parigi 1926); morto quest’ultimo vi è la quinta e sesta lettera, indirizzate tra luglio e agosto 1926, a Giuseppe Gangale (Cirò Marina, Catanzaro, 1898-Svizzera, 1978).
Vi riporto un periodo della quarta lettera di Fiore, datata fine luglio 1925, che ritengo eloquente nel suo garbato grido di ‘denuncia’: «Il governo, dunque, in mancanza di meglio, pare voglia muovere alla conquista del Mezzogiorno: abituato com’è a vincere tutte le battaglie, ha già vinto anche questa, e tutto va nel miglior modo. E noi stiamo un po’ come le plebi latine, di manzoniana memoria, dinanzi all’invasione del Franchi:Un nuovo padrone si mesce all’antico».
Ciò mi permette di spostare la mia attenzione verso Vito Maurogiovanni che nel suo volume «Cantata per una città. Fatti, cose e personaggi del Novecento» (Levante, Bari 2002) nel capitolo intitolato “Quando trasmetteva Radio Bari…” ci racconta di come, dopo l’8 settembre 1943, all’arrivo degli alleati: «Fu naturalmente occupata anche la sede di Radio Bari (via Putignani, 247), gli ufficiali e i soldati alleati furono accolti con molto fair play dall’ing. Giuseppe Damascelli (reggente di Radio Bari), il quale volle aggiungere un altro tratto di meridionale cordialità. Ordinò dal caffè-pasticceria ‘Vox’ di via Sparano cremolate per tutti.
Da quel momento la
trasmittente non si limitò più a ‘passare’ i risicati comunicati del generale Bellomo
ma incominciò a diventare, nel bene e nel male, la “libera voce del governo d’Italia”,
con la partecipazione - non senza polemiche - anche degli antifascisti fra i quali non
vanno dimenticati Giuseppe Bartolo e Michele Cifarelli». Maurogiovanni
legittima il lavoro di un Bartolo all’epoca trentunenne, non potendo prevedere che,
vent’anni dopo il suo libro, la figlia, scrivendo del padre, ci regalerà, con dovizia di
particolari e qualche inedito episodio via ‘cavo’ (… non il ‘cavo’ dei nostri giorni), una
completa ricostruzione nel capitolo “Qui Radio Bari” che invito i miei amici, ‘anta-
anta’, i loro figli e nipoti a leggere oggi, domani o dopodomani.
Mi piace sottolineare di come la gioia di vivere unita a quella cordialità tipica della nostra gente, anche in periodi difficili, mantenga quella cordialità e cortesia peculiari tratti baresi: Giuseppe Bartolo, con Michele Cifarelli, dopo una trattativa, civile ma poco amichevole, con l’ing. Damascelli per l’utilizzo della rete di Radio Bari conclusasi positivamente… ordina granite di caffè con panna da un bar poco distante dalla sede dell’Eiar. Scriverò qualcosa dal titolo dalle cremolate alle granite di caffè con panna, a breve.
La Bartolo ricostruisce con grande onestà ed indipendenza di giudizio l’episodio che vide il padre sospeso, con lettera del 30 ottobre del 1944, dal Partito d’Azione: quella lettera era firmata da Vincenzo Calace nella veste di segretario regionale di Puglia e Lucania. Calace, nativo di Trani, è morto a Molfetta nel 1965: si era laureato a Napoli in ingegneria meccanica e vanta al suo attivo il ‘merito’ di aver rinunciato, nel 1945, al posto di sottosegretario di stato nel governo di Ferruccio Parri. Ha militato nel PSI, da cui è stato espulso e mi fa piacere che la figlia affermi che il padre e Calace si stimassero. Poi non sono d’accordo quando afferma che il padre era ‘passionale’, ma non perdeva mai le staffe… probabilmente in famiglia era così.
Ho conosciuto il professore Giuseppe Bartolo presso la sede del PRI a Bari nei primi anni ’70 del secolo scorso: ero andato per una questione che riguardava la stampa di un giornale; fu molto gentile e gli riferii che avevo incontrato nel portone Michele Lomaglio e Giovanni Modesti e non so perché finimmo a parlare del liceo Cirillo e Flacco, solo allora ebbi la folgorazione e mi ricordai di Bruno e lui aggiunse: «Mio figlio, ma lei sarà venuto anche a casa mia…»; fui sincero dissi subito che non ero mai andato da nessuna parte e che non ero nel ristretto gruppo di amici del figlio. Si meravigliò che sapessi molte cose su Ugo La Malfa e anche che conoscessi personalmente i politici più rappresentativi del nostro territorio di tutti i partiti. Ci salutammo perché doveva ricevere due persone e fuori la stanza ritrovai Antonio Rossano, da cui mi ero congedato due ore prima mentre ci trovavamo da Beppe Lopez al settimo piano del Consiglio della Regione Puglia, e scambiando poche parole entrambi ascoltammo che la discussione all’interno non fosse proprio ‘fraterna’. Anche da noi in azienda spesso si poteva andare, in maniera garbata- progredita un poco fuori dagli schemi , ma, come racconta Maurogiovanni, interveniva Mario Cavalli e portava tutti al bar per ‘raffreddare’ gli animi. Ho rivisto il professor Bartolo altre due volte e mai mi è apparso burbero, anzi abbastanza disponibile alla battuta - come quando gli portai due vecchie pubblicazioni cui era interessato - solo che possedeva una sicurezza teatrale, non per niente la figlia annota che ancor quindicenne entrò a far parte di un gruppo amatoriale ‘Compagnia Filodrammatica’, che di solito è un privilegio-prerogativa di chi ha calcato da ‘protagonista’ il palcoscenico.
La vicenda che ha indotto la Bartolo a dare il titolo al volume, inedita per i non
coinvolti direttamente, è avvenuta il 19-20 febbraio del 1949 a Milano, luogo in cui
ebbe luogo un Convegno di Mistica Fascista: lo storico, politico, filosofo di
Pescasseroli Benedetto Croce (1866 - Napoli 1952) procurò a Giuseppe Bartolo una
tessera di ingresso, onde mettere in atto un’azione di spionaggio politico.
Chiaramente la nostra ‘spia’ per infiltrarsi avrebbe dovuto vestirsi da fascista: cosa che fece e, dopo normali peripezie senza conseguenze, fu in grado di relazionare a Croce lo svolgimento delle due giornate. Tutto ciò che riferisce l’autrice lo deve al giornalista e scrittore Giuseppe Zangrandi: un seguace del regime - il cui figlio era compagno di scuola di Vittorio Mussolini, figlio del fondatore del fascismo - all’inizio e poi approdato all’antifascismo militante, la cui esistenza è terminata nel 1970 con un suicidio. Fondamentale per la Bartolo anche il professore di Storia Contemporanea dell’Università di Parma, Daniele Marchesini, che, per la sua tesi di laurea sulla ‘mistica fascista’, si era rivolto nel 1973 al padre Giuseppe: vi è un carteggio, che il professore di Parma conserva gelosamente, in cui Bartolo gli fornì utili indicazioni che poi sono finite in un libro dal titolo “ La scuola dei gerarchi. Mistica fascista: storia, problemi, istituzioni”, Feltrinelli, Milano, !976. L’autrice del volume ci rivela quello che avvenne in via Niccolò dell’Arca il 28 luglio del 1943, meglio conosciuta come la strage di giovani innocenti: tra di loro Graziano uno dei figli di Tommaso Fiore. Con Antonio Rossano, che aveva spulciato verbali e ricostruito le storie delle 20 vittime attraverso le testimonianze dirette dei 38 feriti e di coloro che furono superstiti indenni, abbiamo passato molte giornate al telefono - dalle 6 alle 7,15 - e sempre vi erano nuovi particolari.
Il magistrato Michele Cifarelli, non ancora senatore del PRI, fu uno dei più attivi, forte anche del ruolo professionale, nel cercare con fermezza, ma con la lodevole intenzione di evitare ‘spargimenti di sangue’, il passaggio di consegne: la trattativa con il Prefetto non ebbe l’effetto sperato. A proposito di Cifarelli, quando fu eletto senatore per il PRI nel 1968 per la prima volta, il giornale di Giovanni Modesti “La città nuova” gli dedicò un articolo e dallo stesso direttore seppi che il neo-senatore era il fratello della professoressa di latino e greco Rosa, la quale era la moglie di Fabrizio Canfora e, quindi, mamma di quel filologo classico Luciano, noto scrittore e saggista contemporaneo.
La Bartolo ricorda anche la difesa del porto di Bari del 9 settembre del 1943 con il generale Bellomo e la città vecchia pronta a dargli una mano e cita l’episodio che vide protagonista Michele Romito: il ragazzo di soli 14 anni che, sprezzante del pericolo, lanciò delle bombe a mano contro una vettura tedesca. Mi piace ricordare Romito perché ormai è quasi un anno che non partecipa alle riunioni domenicali del “Gruppo Amici di San Nicola”, di cui è membro onorario fin dalla sua ‘nascita’, e che, oltre il sottoscritto, annovera: p. Ciro Capotosto, Marco Ciccone, Antonio Cretì e la moglie Rosangela Scarcelli detta Titti, Antonio Di Leo, Giuseppe Giordano, Luigi Papa, Michele Petruzzelli e Nicola Simonetti. Il pluripremiato Romito per il suo gesto eroico, dall’alto dei suoi 94 anni, in estate tornerà con noi e potremo riascoltare la sua voce decisa, che rispecchia la sua non comune qualità di uomo abituato a sconfiggere le traversie della vita senza ‘compatirsi’.
Molto bello il resoconto del 28 e 29 gennaio 1944, giornata in cui al teatro Piccinni ebbe luogo il Primo Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale con la presenza della stampa interna ed estera (in origine il Congresso doveva tenersi a Napoli, ma gli Alleati ritennero la città partenopea troppo vicina al fronte di Cassino… almeno questa spiegazione è stata adottata come versione ufficiale).
La scrittrice è veramente brava-abile-esperta-capace nel raccontare gli eventi di quelle 48 ore a partire dall’introduzione di Michele Cifarelli, continuare con lo storico discorso di Croce in cui il filosofo grida al mondo che il popolo italiano è il primo in Europa ad essere liberato dal ‘fascimonazismo e dagli invasori tedeschi’ e la netta presa di posizione di Tommaso Fiore che ribadisce che nessuno potrà impedire ‘alla nostra gente di riunirsi dove e quando vuole, perché siamo il nuovo governo, la democrazia, l’avvenire d’Europa’. L’eco raggiunse Stalin a Mosca, De Gaulle in Francia, la Camera dei Comuni in Gran Bretagna e il Congresso degli Stati Uniti. Riporto un breve periodo della lunga lettera che Michele Cifarelli indirizzò al carissimo Peppino Bartolo “… ti ricorderanno quale cerbero inflessibile come organizzatore, ma io come commosso, rapito ammiratore di Benedetto Croce…”.
Mi piace sottolineare di come la gioia di vivere unita a quella cordialità tipica della nostra gente, anche in periodi difficili, mantenga quella cordialità e cortesia peculiari tratti baresi: Giuseppe Bartolo, con Michele Cifarelli, dopo una trattativa, civile ma poco amichevole, con l’ing. Damascelli per l’utilizzo della rete di Radio Bari conclusasi positivamente… ordina granite di caffè con panna da un bar poco distante dalla sede dell’Eiar. Scriverò qualcosa dal titolo dalle cremolate alle granite di caffè con panna, a breve.
La Bartolo ricostruisce con grande onestà ed indipendenza di giudizio l’episodio che vide il padre sospeso, con lettera del 30 ottobre del 1944, dal Partito d’Azione: quella lettera era firmata da Vincenzo Calace nella veste di segretario regionale di Puglia e Lucania. Calace, nativo di Trani, è morto a Molfetta nel 1965: si era laureato a Napoli in ingegneria meccanica e vanta al suo attivo il ‘merito’ di aver rinunciato, nel 1945, al posto di sottosegretario di stato nel governo di Ferruccio Parri. Ha militato nel PSI, da cui è stato espulso e mi fa piacere che la figlia affermi che il padre e Calace si stimassero. Poi non sono d’accordo quando afferma che il padre era ‘passionale’, ma non perdeva mai le staffe… probabilmente in famiglia era così.
Ho conosciuto il professore Giuseppe Bartolo presso la sede del PRI a Bari nei primi anni ’70 del secolo scorso: ero andato per una questione che riguardava la stampa di un giornale; fu molto gentile e gli riferii che avevo incontrato nel portone Michele Lomaglio e Giovanni Modesti e non so perché finimmo a parlare del liceo Cirillo e Flacco, solo allora ebbi la folgorazione e mi ricordai di Bruno e lui aggiunse: «Mio figlio, ma lei sarà venuto anche a casa mia…»; fui sincero dissi subito che non ero mai andato da nessuna parte e che non ero nel ristretto gruppo di amici del figlio. Si meravigliò che sapessi molte cose su Ugo La Malfa e anche che conoscessi personalmente i politici più rappresentativi del nostro territorio di tutti i partiti. Ci salutammo perché doveva ricevere due persone e fuori la stanza ritrovai Antonio Rossano, da cui mi ero congedato due ore prima mentre ci trovavamo da Beppe Lopez al settimo piano del Consiglio della Regione Puglia, e scambiando poche parole entrambi ascoltammo che la discussione all’interno non fosse proprio ‘fraterna’. Anche da noi in azienda spesso si poteva andare, in maniera garbata- progredita un poco fuori dagli schemi , ma, come racconta Maurogiovanni, interveniva Mario Cavalli e portava tutti al bar per ‘raffreddare’ gli animi. Ho rivisto il professor Bartolo altre due volte e mai mi è apparso burbero, anzi abbastanza disponibile alla battuta - come quando gli portai due vecchie pubblicazioni cui era interessato - solo che possedeva una sicurezza teatrale, non per niente la figlia annota che ancor quindicenne entrò a far parte di un gruppo amatoriale ‘Compagnia Filodrammatica’, che di solito è un privilegio-prerogativa di chi ha calcato da ‘protagonista’ il palcoscenico.
(Bari 1953. Piazza San Ferdinando. Giuseppe Bartolo nel corso della campagna elettorale per le elezioni del Senato della Repubblica) |
Chiaramente la nostra ‘spia’ per infiltrarsi avrebbe dovuto vestirsi da fascista: cosa che fece e, dopo normali peripezie senza conseguenze, fu in grado di relazionare a Croce lo svolgimento delle due giornate. Tutto ciò che riferisce l’autrice lo deve al giornalista e scrittore Giuseppe Zangrandi: un seguace del regime - il cui figlio era compagno di scuola di Vittorio Mussolini, figlio del fondatore del fascismo - all’inizio e poi approdato all’antifascismo militante, la cui esistenza è terminata nel 1970 con un suicidio. Fondamentale per la Bartolo anche il professore di Storia Contemporanea dell’Università di Parma, Daniele Marchesini, che, per la sua tesi di laurea sulla ‘mistica fascista’, si era rivolto nel 1973 al padre Giuseppe: vi è un carteggio, che il professore di Parma conserva gelosamente, in cui Bartolo gli fornì utili indicazioni che poi sono finite in un libro dal titolo “ La scuola dei gerarchi. Mistica fascista: storia, problemi, istituzioni”, Feltrinelli, Milano, !976. L’autrice del volume ci rivela quello che avvenne in via Niccolò dell’Arca il 28 luglio del 1943, meglio conosciuta come la strage di giovani innocenti: tra di loro Graziano uno dei figli di Tommaso Fiore. Con Antonio Rossano, che aveva spulciato verbali e ricostruito le storie delle 20 vittime attraverso le testimonianze dirette dei 38 feriti e di coloro che furono superstiti indenni, abbiamo passato molte giornate al telefono - dalle 6 alle 7,15 - e sempre vi erano nuovi particolari.
Il magistrato Michele Cifarelli, non ancora senatore del PRI, fu uno dei più attivi, forte anche del ruolo professionale, nel cercare con fermezza, ma con la lodevole intenzione di evitare ‘spargimenti di sangue’, il passaggio di consegne: la trattativa con il Prefetto non ebbe l’effetto sperato. A proposito di Cifarelli, quando fu eletto senatore per il PRI nel 1968 per la prima volta, il giornale di Giovanni Modesti “La città nuova” gli dedicò un articolo e dallo stesso direttore seppi che il neo-senatore era il fratello della professoressa di latino e greco Rosa, la quale era la moglie di Fabrizio Canfora e, quindi, mamma di quel filologo classico Luciano, noto scrittore e saggista contemporaneo.
La Bartolo ricorda anche la difesa del porto di Bari del 9 settembre del 1943 con il generale Bellomo e la città vecchia pronta a dargli una mano e cita l’episodio che vide protagonista Michele Romito: il ragazzo di soli 14 anni che, sprezzante del pericolo, lanciò delle bombe a mano contro una vettura tedesca. Mi piace ricordare Romito perché ormai è quasi un anno che non partecipa alle riunioni domenicali del “Gruppo Amici di San Nicola”, di cui è membro onorario fin dalla sua ‘nascita’, e che, oltre il sottoscritto, annovera: p. Ciro Capotosto, Marco Ciccone, Antonio Cretì e la moglie Rosangela Scarcelli detta Titti, Antonio Di Leo, Giuseppe Giordano, Luigi Papa, Michele Petruzzelli e Nicola Simonetti. Il pluripremiato Romito per il suo gesto eroico, dall’alto dei suoi 94 anni, in estate tornerà con noi e potremo riascoltare la sua voce decisa, che rispecchia la sua non comune qualità di uomo abituato a sconfiggere le traversie della vita senza ‘compatirsi’.
Molto bello il resoconto del 28 e 29 gennaio 1944, giornata in cui al teatro Piccinni ebbe luogo il Primo Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale con la presenza della stampa interna ed estera (in origine il Congresso doveva tenersi a Napoli, ma gli Alleati ritennero la città partenopea troppo vicina al fronte di Cassino… almeno questa spiegazione è stata adottata come versione ufficiale).
La scrittrice è veramente brava-abile-esperta-capace nel raccontare gli eventi di quelle 48 ore a partire dall’introduzione di Michele Cifarelli, continuare con lo storico discorso di Croce in cui il filosofo grida al mondo che il popolo italiano è il primo in Europa ad essere liberato dal ‘fascimonazismo e dagli invasori tedeschi’ e la netta presa di posizione di Tommaso Fiore che ribadisce che nessuno potrà impedire ‘alla nostra gente di riunirsi dove e quando vuole, perché siamo il nuovo governo, la democrazia, l’avvenire d’Europa’. L’eco raggiunse Stalin a Mosca, De Gaulle in Francia, la Camera dei Comuni in Gran Bretagna e il Congresso degli Stati Uniti. Riporto un breve periodo della lunga lettera che Michele Cifarelli indirizzò al carissimo Peppino Bartolo “… ti ricorderanno quale cerbero inflessibile come organizzatore, ma io come commosso, rapito ammiratore di Benedetto Croce…”.
Nel libro non viene neanche trascurata la vicenda che portò il padre nel 1962 ad
essere eletto consigliere comunale a Bari in una lista denominata “Una foglia
d’edera” con quasi cinquemila voti. Fra i 60 consiglieri eletti in quella tornata vi
erano nomi che poi hanno rappresentato la politica per lungo tempo non solo in
ambito regionale: Gennaro Trisorio Liuzzi, Giuseppe Papalia (deceduto in quella
legislatura, sostituito da Lorenzo Colapietro), Fabrizio Canfora, Araldo Crollalanza,
Michele Di Giesi, Pietro Leonida Laforgia, Salvatore Formica, Vincenzo Pinto,
Giuseppe Tatarella, Mario Sansone, Renato Scionti, Mario Giannini, Vito Stefano
Pesce, Nicola Damiani, Antonio Laforgia, Nicola Vernola, Nicola Simonetti,
Vitantonio Lozupone, e tanti altri cui chiedo scusa per il mancato ricordo (Simonetti
è il leader indiscusso del ‘Gruppo Amici di San Nicola’ non per età o autorità, ma
solo perché sa tutto e ricorda tutto).
L’ing. Lozupone fu il sindaco eletto nel 1962 e che dovette dimettersi il 5 agosto del 1964: al suo posto subentrò nella carica l’avv. Gennaro Trisorio Liuzzi. Il sindaco Lozupone, che guidava una giunta DC-PSI-PSDI-PRI, fu costretto a rinunciare insieme all’assessore Giuseppe Bartolo, per presunti interessi privati in atti d’ufficio. Il tutto, ci rivela la figlia, finì dopo quattro lunghi anni in una bolla di sapone e con l’avv. Tatarella, che con il suo giornale “Puglia d’oggi” aveva ‘guidato’ gli attacchi , pronto ad ammettere che non erano attacchi personali, ma al centro-sinistra che guidava l’amministrazione comunale.
Fortuitamente non molto tempo fa ho conosciuto l’ing. Giuseppe Lozupone, figlio del sindaco, per cui, appena possibile, proverò a chiedergli se possiede notizie più dettagliate al riguardo.
Ieri 25 aprile 2023 dalle prime luci dell’alba ho iniziato a leggere il volume della Bartolo: verso le 11,30 avevo quasi terminato la lettura di ‘conoscenza’ in cui segno le parti su cui tornerò, quando Vito, vecchio amico di una vita, che ha frequentato forse Bruno Bartolo più di me, è venuto a trovarmi. Si è portato il libro con ‘lo riavrai domani mattina’. Oggi che sto scrivendo l’ho chiamato e mi ha detto sono a letto per i miei noti dolori e…’se vuoi vieni a prenderlo’. Lui sa che io sono… un Buon amico.
Prima di concludere devo rammentare ai lettori che mi rimproverano di essere spesso troppo ‘poco stringato’ che Antonella Bartolo Colaleo ha pubblicato un libro per l’editore di Soveria Mannelli (CZ) dal titolo “Matite sbriciolate. I militari italiani nei lager nazisti: un testimone, un album, una storia comune” (Rubbettino Editore, pp. 306+ 70 ill., dicembre 2018, € 18,00) dedicato al suocero Antonio che ricorda l’odissea dei militari italiani che, dopo l’8 settembre 1943, furono internati nei campi di prigionia tedeschi; sullo stesso argomento, coadiuvata dalla capace illustratrice Sara Mancuso, ha ideato e pubblicato quest’anno una storia di fantasia “Le matite sbriciolate di nonno Antonio” dedicata ai bambini dai sette ai dieci anni, affinché attraverso il racconto fosse recuperata la memoria della deportazione militare dei nonni e, nello stesso tempo, lasciare traccia di un insegnamento (Editrice Voglino, Torino 2023, pp. 48, f.to 19x26, € 16,00).
Ora dirò alla scrittrice una cosa di cui potrei farne a meno, ma, omettendo, non sarei Livalca e, detto in silenzio, al termine del cammino non mi sembra il caso di virare verso lidi più ‘tranquilli’.
Nel testo preso in esame, che dedica con sensibilità filiale alla madre Delia, dopo aver precisato con giusto orgoglio che il nonno paterno Paolo possedeva un avviato commercio di prodotti agricoli, olio e vino su tutto, gestito all’interno di un’azienda ben conosciuta in tutta la regione, passa al nonno materno Luigi Pasculli, padre di Delia, liquidandolo con un ‘modesto dipendente delle Poste’. Nelle future eventuali nuove edizioni del volume, oltre ad inserire notizie che nel frattempo saranno state raccolte, consiglio di sostituire quel modesto con ‘onesto’. Noi, essendo stati più fortunati, non possiamo giudicare persone che hanno dovuto accettare un lavoro per mantenere la famiglia e, quindi, ricorrere a quel lavoro onesto che non può mai essere definito ‘senza pretese’. Vivere un giorno da ‘postina’ potrebbe essere un modo intelligente per riconquistare le simpatie dei dipendenti di PT e non ho detto avvertire il ‘fruscio’ delle… ‘lettere’ che scorre nel sangue.
L’ing. Lozupone fu il sindaco eletto nel 1962 e che dovette dimettersi il 5 agosto del 1964: al suo posto subentrò nella carica l’avv. Gennaro Trisorio Liuzzi. Il sindaco Lozupone, che guidava una giunta DC-PSI-PSDI-PRI, fu costretto a rinunciare insieme all’assessore Giuseppe Bartolo, per presunti interessi privati in atti d’ufficio. Il tutto, ci rivela la figlia, finì dopo quattro lunghi anni in una bolla di sapone e con l’avv. Tatarella, che con il suo giornale “Puglia d’oggi” aveva ‘guidato’ gli attacchi , pronto ad ammettere che non erano attacchi personali, ma al centro-sinistra che guidava l’amministrazione comunale.
Fortuitamente non molto tempo fa ho conosciuto l’ing. Giuseppe Lozupone, figlio del sindaco, per cui, appena possibile, proverò a chiedergli se possiede notizie più dettagliate al riguardo.
Ieri 25 aprile 2023 dalle prime luci dell’alba ho iniziato a leggere il volume della Bartolo: verso le 11,30 avevo quasi terminato la lettura di ‘conoscenza’ in cui segno le parti su cui tornerò, quando Vito, vecchio amico di una vita, che ha frequentato forse Bruno Bartolo più di me, è venuto a trovarmi. Si è portato il libro con ‘lo riavrai domani mattina’. Oggi che sto scrivendo l’ho chiamato e mi ha detto sono a letto per i miei noti dolori e…’se vuoi vieni a prenderlo’. Lui sa che io sono… un Buon amico.
Prima di concludere devo rammentare ai lettori che mi rimproverano di essere spesso troppo ‘poco stringato’ che Antonella Bartolo Colaleo ha pubblicato un libro per l’editore di Soveria Mannelli (CZ) dal titolo “Matite sbriciolate. I militari italiani nei lager nazisti: un testimone, un album, una storia comune” (Rubbettino Editore, pp. 306+ 70 ill., dicembre 2018, € 18,00) dedicato al suocero Antonio che ricorda l’odissea dei militari italiani che, dopo l’8 settembre 1943, furono internati nei campi di prigionia tedeschi; sullo stesso argomento, coadiuvata dalla capace illustratrice Sara Mancuso, ha ideato e pubblicato quest’anno una storia di fantasia “Le matite sbriciolate di nonno Antonio” dedicata ai bambini dai sette ai dieci anni, affinché attraverso il racconto fosse recuperata la memoria della deportazione militare dei nonni e, nello stesso tempo, lasciare traccia di un insegnamento (Editrice Voglino, Torino 2023, pp. 48, f.to 19x26, € 16,00).
Ora dirò alla scrittrice una cosa di cui potrei farne a meno, ma, omettendo, non sarei Livalca e, detto in silenzio, al termine del cammino non mi sembra il caso di virare verso lidi più ‘tranquilli’.
Nel testo preso in esame, che dedica con sensibilità filiale alla madre Delia, dopo aver precisato con giusto orgoglio che il nonno paterno Paolo possedeva un avviato commercio di prodotti agricoli, olio e vino su tutto, gestito all’interno di un’azienda ben conosciuta in tutta la regione, passa al nonno materno Luigi Pasculli, padre di Delia, liquidandolo con un ‘modesto dipendente delle Poste’. Nelle future eventuali nuove edizioni del volume, oltre ad inserire notizie che nel frattempo saranno state raccolte, consiglio di sostituire quel modesto con ‘onesto’. Noi, essendo stati più fortunati, non possiamo giudicare persone che hanno dovuto accettare un lavoro per mantenere la famiglia e, quindi, ricorrere a quel lavoro onesto che non può mai essere definito ‘senza pretese’. Vivere un giorno da ‘postina’ potrebbe essere un modo intelligente per riconquistare le simpatie dei dipendenti di PT e non ho detto avvertire il ‘fruscio’ delle… ‘lettere’ che scorre nel sangue.