LIVALCA - «Le sue lotte per l’affermazione nel mondo dei valori umani hanno sempre significato intervento a difesa della civiltà tradizionale, non nella totalità dei suoi archetipi, ma in taluni valori che i cingoli della civiltà industriale e consumistica hanno distrutto, come fanno talora gli anticrittogamici, che tagliano l’ossigeno ad ogni forma di vita: innocenti e malvagi, tutti nello stesso budello, come spari nel mucchio. Si è proceduto proprio a questa maniera, dicono i versi di Bellino, con l’ottusità ferrigna dell’aratro da scasso, che affonda il suo dente nella terra, distrugge spesso le antiche vestigia della civiltà, tombe e vasellami colmi di altre preoccupazioni: rivoltare le zolle, preparare la dimora ai semi, promettere una produzione raddoppiata, la ricchezza, il valore d’uso, il benessere economico. Tutto il resto non conta…» questo inciso è stato estrapolato dalla diligente introduzione che Raffaele Nigro scrisse, nel mese di ottobre del 1984, per il volume di versi dell’amico filosofo Francesco Bellino dal titolo “Tempo smemorato”, testo che era il numero 4 di una collana, pubblicata dalla Levante di Bari, e che era diretta da Leonardo Mancino e Raffaele Nigro.
Mario Cavalli ‘stravedeva’ (questa almeno era la mia sensazione e, a prescindere da qualsiasi analisi psicologica, posso garantirvi che non so cosa sia l’invidia che ha afflitto e continuerà ad affliggere il pianeta, ma so bene cosa fosse la generosità che ‘consolava’ di tutto Mario Cavalli… che era pur sempre mio padre) per Francesco e Raffaele e questo gli permise di ‘sopportare’ nel volume «Tempo smemorato» una breve appendice dal titolo “Metamorfosi della libertà” commentata con queste parole: «Non basta Raffaele, pure Francesco». Quattro mesi prima Nigro, con il volume «La metafisica come scienza» ed, in particolare, con la sezione dedicata alle ironie e ai divertimenti antimatematici, aveva un poco ‘scosso’ le certezze paterne. Per fortuna il tutto era stato bilanciato, nel caso di Nigro, dai disegni di Beppe Labianca e Luigi Guerricchio, e di Bellino da quelli di Vito Matera: in verità mio padre voleva conoscere il prof. Matera, perché senz’altro aveva in mente qualcosa, ma non ritengo sia avvenuto mai l’incontro in una delle tante domeniche destinate a queste riunioni.
Sono passati quasi quarant’anni da allora, ma è sempre Raffaele Nigro a curare l’introduzione di un libro ‘partorito’ dalla sensibilità, mista a percettività-emotività- impressionabilità della profonda fede cristiana di Bellino, in cui la sua pietà caritatevole e la sua compassione misericordiosa sconfiggono la freddezza- indifferenza e la carità-umanità-benevolenza vincono sulla crudeltà e ferocia così come la religiosità e devozione sconfiggono l’irreligiosità e l’empietà. «All’ombra della pianura. Epitaffi ed elegie daune» il titolo del nuovo volume di Bellino, sempre con introduzione di Nigro, pubblicato da Delta 3 di Grottaminarda (pp. 96 € 10,00, dicembre 2022 ), azienda ‘sbocciata’ dall’intraprendenza del prof. Silvio Sallicandro che nel 1995 varò l’impresa editoriale.
Scrive oggi Raffaele per questa nuova opera di Francesco «Il mondo contadino della Capitanata era allora al centro della sua ispirazione, insieme agli affetti familiari e all’elogio della semplicità. E tale si ripresenta in questa raccolta, dove fanno irruzione nomi e temi di quella filosofia dell’umano che Bellino ha perseguito nel suo sistema di pensiero, accostandosi a Wittgenstein, Popper, Gadamer, ai grandi temi posti dalla filosofia dell’umanesimo integrale, Maritain, e del personalismo comunitario, Mounier» e va precisato che all’inizio, quando parla del mondo contadino cui traeva ispirazione Bellino, si riferisce ad un volume pubblicato nel 1975 a Orta Nova dal titolo «Lembi di sodaglia» ( Tip. Papagno).
I versi di questo lavoro di Bellino hanno per tema la morte: quella che faceva dire a Carducci «Sol nel passato il bello, sol nella morte il vero», a Petrarca «Un bel morire tutta la vita onora» e a Seneca «Nessuno muore prima della sua ora», mentre Bellino «Non calpestare questi fiori: vivono di sole/di aria /di pioggia/di terra./ Nella terra/ c’è la polvere dei nostri padri».
Il poeta Bellino non dimentica mai coloro che sono morti e, quindi, hanno avuto sepoltura nel Tavoliere della Daunia: la terra dei cinque Reali Siti, quella ‘campagna’ che ha suggerito ad Annito Di Pietro l’idea per realizzare un ambizioso sogno: fondare un periodico dal titolo «Lo Sguardo sui 5 Reali Siti».
Se prendiamo un vocabolario alla parola elegia riporta: componimento poetico di vario argomento di tono malinconico. Ma chi ha frequentato il mondo ‘classico’ in ‘illo tempore’ ha appreso che può derivare da èlegos e propriamente da e e lèghe (canta ahi ahi), ma può anche essere un vocabolo di origine frigia; inoltre proprio dalla parola èlegos (lamento funebre) è scaturito eleghèion (elegiaco) per indicare il secondo verso del distico elegiaco (pentametro).
Bellino nei suoi sofferti versi si chiede dove possa trovarsi Dauno (Figlio di Licaone, re illirico, che con i fratelli Iapige e Peucezio conquistò la Puglia, suddividendola in tre regni: uno per ogni fratello. Virgilio, inoltre, ci ricorda che ha generato Turno) ed anche Diomede (eroe della mitologia greca che richiederebbe due articoli per ricordare le tante imprese che lo hanno visto protagonista: a noi basta riferire che una violenta tempesta lo fece approdare sulle coste della Daunia, dove trovò il tempo di fondare alcune città: Virgilio nella sua Eneide lo descrive come un sovrano pacifico che tiene al benessere dei suoi popoli) per poi concedersi una ‘riflessione’ solo in apparenza tetra: «Romanzo della vita/ è il cimitero/la malinconia è la tua anima/l’elegia il suo canto. /Qui il tempo si spegne./Fiorisce l’eterno». Spero che Francesco, alla cui amicizia tengo da sempre, non si offenda se la conclusione di questi versi mi ha fatto pensare ad una frase del film “Il gladiatore”, pellicola che non ho visto come tutti i film che ricevono molti premi, ma che ho letto da qualche parte viene pronunciata dal protagonista del film “Fratelli ciò che facciamo in vita, riecheggerà nell’eternità”.
Bellino nelle ‘ELEGIE DAUNE’ riporta pensieri forbiti di Sofocle, Eraclito, Leopardi, Borges, Dàvila e Matteo Salvatore «Laggiù nella pianura, nel nostro Tavoliere, nell’onda delle messe vedo spigare te». Ho citato quest’ultimo perché nel 1969 avrei potuto intervistarlo sul Gargano dove lui doveva partecipare ad una serata musicale: non fu possibile per una serie di non fortunate coincidenze, ma ricordo che il suo volto esprimeva non rassegnazione ma rabbia mentre consumava pane e olive. Dovendolo legare il personaggio Salvatore a dei versi scelgo: «Tutti i sapori della Pianura/ passano/ attraverso l’aspro gusto/ dei chicchi di grano duro,/ del raspo d’uva,/ delle olive nere tra i denti». Il professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Bari Francesco Bellino è, pur sempre, colui che ha diretto e fondato nella stessa Università il Dipartimento di Bioetica, ma conserva l’entusiasmo e la semplicità di quel gruppo di poeti (Bellino, Bizzarro, Giancane e Nigro…in ordine alfabetico) che diede vita al gruppo denominato “Interventi culturali’.
«In questa enorme cassaforte ho trovato un brogliaccio di carte con la scritta «All’ombra della pianura. Epitaffi ed elegie daunie». Non so dirti, caro lettore, se sono trascrizioni di testi trovati e/o sue creazioni. Non ho osato intromettermi nell’opera altrui» queste sono le parole con cui nella prefazione Bellino ci racconta dello storico del Tavoliere e non posso far altro che precisare a coloro che fossero interessati a vedere se in fondo all’oscurità- eternità ci possa essere, con la polvere, una luce speciale… che sarebbe cosa buona e giusta entrare in possesso della copia del libro per fare un viaggio di quelli che non può essere consigliato a tutti, ma che tutti, prima o poi, dobbiamo intraprendere.
Su pressione del direttore di questo giornale chiarisco che il termine epitaffio (dal greco epì sopra e tàfos tomba) ha un primo significato di discorso funebre in cui vengono esaltate le qualità del defunto tipo quelle che Pericle e Demostene pronunciarono per coloro che erano morti nella battaglia di Cheronea, ma più rispondente a noi, forse, è epitàfion (iscrizione sulla tomba) in cui veniva commemorato colui che aveva perso la vita anche con versi, ma di solito, dopo il nome e luogo di nascita, vi erano notizie sul lavoro svolto in vita e le cause della morte e magari alcune esortazioni per i vivi affinché non dimenticassero («Qui riposa/ donna Luigietta./ Non seppe più nulla/ dei figli emigrati in Argentina./ Di neri i capelli si fecero bianchi/ e impazzì»).
Penso che l’elegia numero 62 (l’età che avrei desiderato avere io oggi!) sia quella che ha più scavato nella mia anima una volta ‘contestatrice’: « Viviamo tra l’assurdo e il mistero/ L’amore di Dio/ è più forte della morte». A Francesco Bellino da Orta Nova, comune sito a 69 m s.m. con una prospera economia basata sull’agricoltura, non posso esimermi dal ricordare che per ordine di S. M. Federico IV, nel 1773, furono istituite le colonie di Orta, Ordona, Carapelle, Stornarella e Stornara: i Cinque Reali Siti. Nel 1806, con decreto di Giuseppe Napoleone I, Orta Nova divenne comune autonomo del Tavoliere.
Difficilmente una pianura è priva di acqua, altrimenti sarebbe un deserto: nella Daunia il deserto non si trova da nessuna parte, perché la vita errante o migrante ha abituato gli abitanti a gioire delle piccole cose… siano elegie, epitaffi o semplice polvere.