'L’Italia deve ripartire', l’agenda di De Benedetti
FRANCESCO GRECO - Il declino dev’essere davvero serio e ontologico, esponenziale, ormai quasi “cultura” che si respira nell’aria se un uomo del calibro di Carlo De Benedetti accorre al capezzale del sistema-Italia, nella speranza un po’ ingenua, quasi infantile, che le patologie non diventino croniche in un Paese che danza sulla coperta del Titanic, sull’orlo del burrone della marginalità, continentale e planetaria, senza più anticorpi, quasi ridotto all’ologramma di sè stesso.
Con un saggio appassionato, colmo di steinbeckiano furore, dalla postura virile, col passo spedito di un instant book e allo stesso tempo di un sapido pamphlet, magicamente intrecciato alla propria densa e prestigiosa parabola biografica. Dal particolare all’universale, e viceversa, in un gioco di specchi, di echi e rimandi, citazioni, illuminazioni, urla, silenzi pregni di sottintesi.
Dalla fuga con la famiglia in Svizzera (causa leggi razziali, bombardamenti nei cieli d’Italia, casa ridotta in macerie a Torino, è il 1942), per sopravvivere con i preziosi che la madre si era cucita addosso, sino all’ennesima, eccitante avventura editoriale, “Domani”, a tentar di contrastare la barbarie del pensiero, il debosciarsi dello spirito, l’illanguidirsi della percezione, l’offuscamento dello sguardo: in una parola, la iattura del populismo tracimante che a question complesse, barocche, propone soluzioni ordinarie e che all’interesse del Paese antepone la ricerca del consenso e i propri privilegi castali. In un’Italia che ha smesso di crescere e che ha visto radicalizzarsi le diseguaglianze.
Sullo sfondo del “disfacimento della parte politica che ho sempre sostenuto”, ideale e progettuale, senza più “visioni”, ridotta a galleggiare nella miseria del carpe diem, “Guardando da Fiesole verso Firenze in una giornata chiara…”, Carlo De Benedetti vede “una stagnazione che prelude alla decadenza”, una politica priva di un’“ambizione trasformativa e propulsiva” e punta l’indice verso la classe politica mediocre e autoreferenziale, e non ci vuol molto: con le sue gaffe e le amnesie si potrebbe metter giù uno zibaldone. Ma anche “l’inesistenza di una classe dirigente” nel suo complesso accidiosa, “neghittosa” direbbe Thomas Mann. La società civile afasica, narcotizzata, silente, incapace di scandalizzarsi, una community dalla coscienza atomizzata in plancton galattico, che scambia i mezzi per fini e i fini per mezzi.
E, sottinteso, la comunicazione provincializzata, folklorizzata, che guarda al dito e non alla luna. Nel polisemico concept del suo “Domani”, c’è anche la battaglia all’olezzo delle fake news che si imbandiscono e si spargono quotidianamente spazzando la polvere sotto al tappeto, montando una narrazione distopica, orwelliana, da Mulino Bianco. Dal suo speciale punto di osservazione, in un Paese povero di risorse naturali, quindi “di trasformazione”, De Benedetti ha visto un Paese contadino farsi industriale: “Siamo cresciuti: con storture, diseguaglianze, ingiustizie, corruzione, criminalità…”.
E oggi avverte “un’esigenza di
radicalità in senso etimologico” (cioè senza l’italico
gattopardismo, l’avvitamento sull’accademia che
contenta tutti) e invoca “discontinuità”. Quella che è
venuta meno, ci fa capire fra le righe, è quell’energia,
quel fuoco prometeico, quella creatività escatologica
che teneva unito un popolo, quell’alchimia segreta
senza la quale siamo solo un “agglomerato” (per
dirla con Longanesi) e che fece grande e autorevole il
Paese poco tempo fa, ma con la scansione del tempo
all’epoca del byte e il like, la distanza pare siderale,
come fossero trascorsi anni-luce.
Come quei racconti (culacchi) d’inverno davanti al focolare nell’altro secolo, d’estate nei vicoli odorosi di menta e salvia nel Sud, la narrazione tiene avvinti con un plot dialettico da cinema neorealista. Tesi, antitesi, sintesi e soprattutto, soluzioni serie, praticabili, possibili (ambiente, tasse, energia, edilizia, etc.), da uomo del fare, “res non verba”, o “res gestae”, giusto per dare al suo neo-umanesimo un retroterra mitico (l’Impero di Cesare e di Augusto). Un saggio dedicato al padre, come a dare continuità storica, che, nell’interesse del sistema- Italia, del patto sociale in cui tutti abbiamo un ruolo e una mission, dev’entrare ex abrupto nel dibattito politico e culturale del Paese nel cui dna ci sono i geni di Cesare e Augusto, ma anche di Carlo Magno, Dante e Leopardi, di Fellini e Rossellini e, perché no, anche di Pertini. Il loro nobile hybris – che marca la nostra identità - non può essere offuscato, dilapidato, relativizzato o, peggio, andar perduto.
Carlo De Benedetti
Come quei racconti (culacchi) d’inverno davanti al focolare nell’altro secolo, d’estate nei vicoli odorosi di menta e salvia nel Sud, la narrazione tiene avvinti con un plot dialettico da cinema neorealista. Tesi, antitesi, sintesi e soprattutto, soluzioni serie, praticabili, possibili (ambiente, tasse, energia, edilizia, etc.), da uomo del fare, “res non verba”, o “res gestae”, giusto per dare al suo neo-umanesimo un retroterra mitico (l’Impero di Cesare e di Augusto). Un saggio dedicato al padre, come a dare continuità storica, che, nell’interesse del sistema- Italia, del patto sociale in cui tutti abbiamo un ruolo e una mission, dev’entrare ex abrupto nel dibattito politico e culturale del Paese nel cui dna ci sono i geni di Cesare e Augusto, ma anche di Carlo Magno, Dante e Leopardi, di Fellini e Rossellini e, perché no, anche di Pertini. Il loro nobile hybris – che marca la nostra identità - non può essere offuscato, dilapidato, relativizzato o, peggio, andar perduto.
Carlo De Benedetti
“Radicalità” (Il cambiamento che serve all’Italia) Solferino Editore, Milano 2023
Collana “Solferini”, pp. 144, euro 14,oo.