La rugiada del cuore di Santa Fizzarotti


DELIO DE MARTINO
- “Il segreto della Rugiada nell’impronunciabile soffio di Dio”. Il titolo dell’ultima silloge di Santa Fizzarotti Selvaggi (Gagliano Edizioni, 2023) rivela la complessità delle sfumature di un percorso poetico-spirituale che la poetessa ha voluto intraprendere con un’opera, che si presenta come un seguito della precedente opera a quattro mani “Perle di rugiada”.

L’excursus delle liriche dell’ultima opera di Santa procede dalle tenebre alla luce, secondo un modello che la poetessa aveva già affrontato (vd. “La trilogia della luce”), ma in questo caso l’iter si fa più sfumato, più enigmatico e, in termini tanto formali quanto concettuali, quasi ermetico. La rugiada del titolo è il lemma che rivela la peculiarità di questa silloge onirica e concreta allo stesso tempo. La rugiada richiama un elemento fisco atmosferico, le goccioline che si depositano all’alba sui petali dei fiori per scomparire appena sorge il sole, ma è soprattutto una potente metafora. Non è un caso che la poetessa dedichi il volume “all’Amore e ai suoi segreti, alla Rugiada del mio cuore”.

La rugiada diventa infatti raffigurazione di una ricerca sfuggente, labirintica e quasi “inenarrabile”. È difatti un fenomeno associato già nel titolo al segreto, alla difficoltà di rivelare, di andare oltre l’effimero, nel senso etimologico di ἐϕήμερος, composto di ἐπί “sopra” e ἡμέρα “giorno”, ovvero “che non va oltre un giorno”.

La rugiada in realtà dura ancora meno di un giorno, una manciata di minuti, ed è così evanescente che diventa difficile da osservare e narrare, quasi “impronunciabile”. Un “simbolo di rigenerazione spirituale” come chiarisce la Fizzarotti ma che si connota non solo per la delicatezza ma anche per il dolore e la “nostalgia” (“Sul filo della nostalgia” è l’ultima sezione della silloge).

D’altronde già nel mito greco la rugiada è l’espressione di un dolore nascosto e segreto: le goccioline di acqua sono espressione del pianto di Eos, Aurora (“la dea dalle dita rosate” per Omero), che ogni mattina si dispera per la perdita del figlio Memnone ucciso da Achille durante la guerra di Troia.

Ancor più nella letteratura latina la rugiada indica un pianto per un dolore impossibile da esprimere. Com’è anche spiegato nell’epilogo del volume in latino il vocabolo è “ros, roris”, da cui il verbo italiano “irrorare”. Il ros (il vocabolo è infatti maschile) più affine alla sensibilità della Fizzarotti è quello narrato da Ovidio nel libro X delle “Metamorfosi”. Qui il poeta di Sulmona racconta che la giovane Mirra, segretamente innamorata del padre Cinira, “tepido suffundit lumina rore”, “bagna il volto di calda rugiada”. La rugiada è quella del pianto di un sentimento oscuro, di amore irrealizzabile se non compiendo un’empietà e sgorga in un momento particolare. Quando il padre le chiede quale ragazzo le farebbe piacere sposare, la giovane tace e piange. 

Ma il pianto della rugiada diventa fonte di ulteriori equivoci: il padre la bacia pensando che sia frutto del pudore virginale e la bacia alimentando ancora di più sentimenti impossibili da rivelare. Si tratta insomma un amore “impronunciabile” e “segreto” esattamente come quello di García Lorca”. Il poeta dei “Sonetti dell’amore oscuro” è citato non a caso in apertura del volume: “Bisogna aprirsi interamente di fronte alla notte nera, per riempirci di rugiada immortale”. La sfida di Santa è proprio questa: cantare sentimenti, in primis l’amore, immersi nell’oscurità o quantomeno nella penombra dell’alba. Come quello cantato da Pablo Neruda (menzionato a p. 559) “t’amo come si amano certe cose oscure, segretamente, tra l’ombra e l’anima”.

Con il “pre-testo” di García Lorca inizia dunque il viaggio dalle tenebre alla luce, dopo un’ulteriore citazione di Winnicott sulla creatività “che appartiene propriamente al mondo dell’infanzia”. La rugiada è in fondo un tema pascoliano che proprio con la visione del fanciullino la raccontò nella poesia “La guazza”.

Il viaggio comincia idealmente prima ancora della formazione della rugiada, nel tempo delle tenebre e del sonno in cui avvenne la genesi di Dio, un tempo in cui, si domanda la poetessa, “sognando / il Signore / generò se stesso?”. In questo sonno c’è la creazione ma anche un lato oscuro. D’altronde proprio cantando lo smarrimento nella selva oscura Dante nel primo canto dell’Inferno confessa che “tanto era pien di sonno / che la verace via abbandonai”. In questa creazione, spiega la poetessa, vi è pure il desiderio come lacerazione.

Il desiderio dunque si innesta in un processo generativo provocando inevitabilmente dolore. Un “mistero di dolore” è perciò l’incipit della seguente lirica che introduce nel lungo percorso lungo i meandri dell’anima alla ricerca dell’amore.

Nel corso di questo viaggio nella selva semi-oscura della propria rugiada la poetessa incornicia le singole poesie in una struttura a panino, con una citazione iniziale, da una scrittura sacra o da un poeta illuminato, e un commento finale firmato da Giovanni Losito. La citazione iniziale segna una sorta di guida spirituale ai versi seguenti, mentre il commento dello psicanalista, attraverso poche ma pregnanti parole, invita il lettore a leggere i versi quasi come strumento per una psicoterapia personale.

Ulteriori preziosi paratesti, anch’essi guide spirituali alla lettura, sono la prefazione del monsignor Giuseppe Satriano e l’intermezzo di Padre Bubbico. La prima invita ad avere fiducia nel verso “come un fiore che sboccia al mattino” suggerendo di “scorgere l’ineffabile presenza di Dio” nei versi così come “nelle realtà più laiche e apparentemente più lontane dal sacro”. Nell’intermezzo padre Bubbico invece scandaglia i temi dell’autrice, anche facendo riferimenti alla biografia della poetessa che conosce profondamente e proponendo la Bibbia come chiave di lettura per i misteri della vita e della poesia.

Questa struttura complessa in cui si alternano poesia e prosa, critica letteraria religiosa e creatività, trasforma il testo quasi in un prosimetro sulla scia della “Vita nuova”. Nel complesso tra citazioni religiose, citazioni laiche e letture psicologiche l’opera procede verso la ricerca ultima dell’Amore, un amore che va oltre le categorie finite dell’uomo e che la poetessa esprime efficacemente in un dialogo poetico tra San Paolo e Shakespeare. Il primo lo definisce ’“l’amore che non avrà mai fine” il secondo l’amore che “non muta”.

Mettendo così in un cortocircuito di versi la parola di poeti e di santi, in una visione panica della poesia, la Fizzarotti si sforza di offrire una visione di luce, convinta che “Nelle tenebre giace in germoglio la luce”.

Il percorso si snoda in tre sezioni, numero che allude alla trinità: “Dalle tenebre alla luce”, “Dall’Eden al Carmelo” e “Dal Carmelo alla Gerusalemme Celeste”.

Nonostante la vocazione al Paradiso il segreto della rugiada resta comunque un percorso di purificazione carico di chiaroscuri, un percorso che si può definire soprattutto purgatoriale. D’altronde già Dante, alle origini della poesia italiana, insegnò che la rugiada non appartiene né all’“Inferno” né al “Paradiso”. Il divino poeta la cita difatti soltanto nel “Purgatorio”. La prima volta nel primo canto del “Purgatorio” dove Virgilio, dopo l’incontro con Catone, bagna le mani nell’erba per poi tergere il viso del poeta e cancellare i segni del viaggio infernale.

Anche in questo caso la rugiada viene descritta facendo riferimento a una penombra, fisica e morale, dove sole e goccioline idealmente combattono una guerra: “Quando noi fummo là ’ve la rugiada / pugna col sole, per essere in parte / dove, ad orezza, poco si dirada”.

Nel canto Dante, intuendo che il suo duca vuole detergergli il volto dai segni infernali, porge fiducioso le guance che anche in questo caso si rivelano cariche di lacrime: “porsi ver’ lui le guance lagrimose”.

Come Dante, Santa Fizzarotti si affida, tra le lacrime, alla poesia per cercare la speranza nella penombra della rugiada: “Nel diluvio del pianto / Ho incontrato / Un barlume di speranza”.

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