'Liquilab' chiuso col lucchetto, ondata di affetto per i ricercatori
FRANCESCO GRECO - “La tarantella che sto per suonare è per i miei amici di Liquilab… Spero col cuore che serva a far arrivare loro tutto il mio affetto e la mia solidarietà in questo momento così complicato…”, Daniela Ippolito, arpista di fama mondiale, da Matera. “Un gesto subdolo e violento”, Giulia Rizzo. “Senza parole” (Antonio Chiarello). “Infinita tristezza” (Rosa Valiani). “Siamo governati da analfabeti” (Pina Scarcella). “Ora che ci farete di quei locali al buio?”, Eugenio Imbriani, antropologo Unisalento. “I luoghi della memoria non vanno chiusi…”, Aldo Basile. “Aiutateli. Sono ottimi custodi delle nostre tradizioni”, Salento Archeologico.
Sotto l’hastag #salviamoliquilab, la solidarietà e l’affetto per Liquilab (Istituto di Cultura, Arte e Inclusione / Bottega di memorie e identità giovanili) corrono veloci da un angolo all’altro dell’Italia. Ma anche lo stupore e lo scandalo. Come si possono combattere la barbarie e il vuoto di valori (dei ragazzini che ammazzano bambini e ragazzine) senza realtà così strutturate e ormai storiche sparse nei territori? Fra l’altro, riconosciute dalle stesse istituzioni, dal Mibact all’UNESCO, mica clandestine.
Quel breve filmato apparso sui social del portone della sede chiuso con lucchetto e catena fa impressione, è un pugno sui denti, desta aspri interrogativi, ci spalma addosso il pessimismo della ragione in un tempo di per sé difficile e complicato.
Mala tempora currunt sed peiora parantur, avrebbero detto nell’Urbe di Augusto e Seneca. Segna la fine di un mondo fatto di incontri, di scambi di immaginari, speranze, utopie, di reciproci arricchimenti nella socialità gratificante, nelle condivisioni di vissuti, nella convivialità delle differenze.
Ora dietro quel portone a Piazzetta Dell’Abate un silenzio da sepolcro, che comunica solo freddezza e tristezza, come un vento afoso di favonio che spazza una piazza senza anima.
Il Comune di Tricase, città decaduta (e questo lucchetto è un altro segno), è stato di parola: con una determinazione degna di altre cause. Peraltro, retto da una maggioranza esigua, frutto di accordi notturni e di salti della quaglia.
Aveva già tagliato la luce e ora sfratta la “creatura” di Giuseppe e Ornella Ricchiuto (sociologa) e tutti gli operatori culturali che da anni animavano un territorio e conducevano con rigore e passione una ricerca modulata sulla memoria, la coscienza, l’appartenenza, le radici: uno scavo necessario per evitare fossati con le nuove generazioni e poter poggiare un’idea di futuro meno grama che si indovina all’orizzonte e che non sia il trolley e l’emigrazione. Senza un solido ancoraggio al passato, quale domani è possibile? Perché abbiamo la vocazione a distruggere qualcosa che funziona, appassiona, coinvolge? Meglio i disvalori: droga, vuoto esistenziale, qualunquismo, solitudine, alienazione, gramigna?
“Ho il cuore in gola stamattina – dice con la voce che trema la dottoressa Ricchiuto - dopo tanti anni di lavoro e di passione… Qui ci siamo scambiati abbracci ma anche pianto per la commozione… Il sindaco non è mai venuto ad ascoltarci…”. Lei parla e a far da controcanto i passeri regalano la musica di fondo. Ma, a volerla cogliere, anche in quel cinguettio c’è una nota di tristezza, e di sconfitta. Soffocata dal suono cupo di una campana.
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