Morte a Venezia, anzi, sul Roma-Foggia


FRANCESCO GRECO
- Gustav Von Aschenbach è seduto sulla sua sdraio, lo sguardo perduto sul mare. Siamo al Lido di Venezia. D’improvviso, una visione celestiale: appare Tazio, ragazzo di una bellezza apollinea, efebica, scandalosa. E’ slavo, è in vacanza con la famiglia.

Le prime pagine di “Morte a Venezia” (1912, Thomas Mann) traggono in inganno: l’idealizzazione che il vecchio fa del ragazzo portano a una conclusione affrettata, superficiale quanto erronea: un desiderio fisico, carnale, omosessuale.

Non è così: Tazio attiva un meccanismo della memoria, il vissuto riemerge, la propria giovinezza, il tramonto vicino, gli inevitabili bilanci, le speranze frustrate, i fallimenti, i rimpianti, i rimorsi. Un bilancio ispido, duro da metabolizzare.

Tazio è la vita che incombe, il futuro gravido di cose nuove, l’energia indomabile della giovinezza, la speranza, la salvezza. Gustav specularmente è l’opposto: il passato, il fuoco che si spegne, la forza che si fa languida, la fine del senso, la percezione di se stessi, della Storia, il crepuscolo del tutto.

Inevitabile, fatale, la sovrapposizione fra il romanzo e quel che Alain Elkann vede sul treno Roma- Foggia fra ragazzi che stanno andando in vacanza, tatuati, vestiti alla moda, volgari, che bevono dalle lattine e parlano di rimorchiare non al night (improbabile che l’abbiano detto, forse è la discoteca) ma in spiaggia, dove vanno le ragazze. E dove sennò, sulle terrazze delle ztl non li vogliono e sarebbero fuori posto.

E manco si accorgono del signore distinto che legge giornali in inglese, Proust in francese, prende appunti con la stilografica si presume costosa, non certo le pennacce che da 30 c. che usa il popolo regalate dalla ditta di muratori del quartiere o comprate alla cartoleria all’angolo. Pennacce da cui non possono che sortire banalità, sciocchezze, errori grammaticali, consecutio sbagliate.

Eppure quella è la vita, il suo fiume limaccioso, bello, scintillante che scorre energico sotto il sole. Forse senza volerlo, Elkann ha scritto l’epitaffio della sua classe, il suo mondo, la sua estrazione sociale (la borghesia illuminata), la sua cultura, i suoi valori relativizzati.

Quell’articolo è una sorta di auto-necrologio. E’ pregno della stessa aria immobile di fine impero, di un mondo, un’epoca che Thomas Mann ci fa respirare nel suo immortale romanzo.

I barbari incombono alle frontiere, i Lanzichenecchi hanno tatuaggi, sono volgari, parlano male, sono avidi di vita. Vogliono tutto, sono i padroni del mondo, lo vogliono subito, hanno addosso un’energia escatologica, destrutturante. E’ il Quarto Stato 2-0 che avanza protagonista deciso a scrivere un’altra Storia. E’ la diaspora generazionale, bellezza. Di cui non si vuol prendere atto. La polarizzazione fra generazioni. Se vanno a votare i vecchi (grazie anche a una legge elettorale che lascia milioni di persone senza rappresentanza) e anche la signora Schlein s’è accorta di avere un elettorato over 70. Se i giornali li leggono dai 40 in su. Se la tv generalista la guardano i vecchi (lì trovava il consenso la Buonanima: aveva intuito che più abbassi il livello più c’è consenso). E infatti a settembre 2022 si affacciò da un social per ragazzini, Tik Tok, trovando più risate che voti. Magari i dati audience della tv nazionalpopolare sono pure gonfiati: ci sono molte tv spente o sulle serie.

La crisi dei giornali è lo specchio della crisi epocale in cui annaspiamo. L’incapacità di capire i nuovi soggetti sociali, il loro protagonismo, i linguaggi, ciò che hanno nel cuore e nella mente. Oggi i giornali sono fatti da élite che lanciano segnali ad altre élite, e il popolo? Un accessorio, un convitato di legno, non pervenuto.

Oggi ho preso 4 autobus e due metro, non ho visto un cane col giornale, manco il free-press. Anzi, no: ho visto un anziano miope con gli occhi incollati al Corriere dello Sport, pagine della Lazio. Le tirature stratosferiche dell’altro secolo sono un bel ricordo.

La politica degradata è narrata da una comunicazione anch’essa tossica, militante, folkloristica, reticente, che consola il pubblico nei suoi più radicati pregiudizi. Mai la menzogna è stata così ostentata, rudemente brandita. Quella che spaccia il Nobel Montagnier per un poveraccio, Putin con mille patologie, chi sgarra dal mainstream finisce nelle liste dei putiniani.

Società polarizzata si diceva. I governi sono vecchi, ignorano cosa hanno nel cuore i Lanzichenecchi. Ma non è un fenomeno solo italiano. Basta guardare la Francia, quel che è accaduto poche settimane fa potrebbe diventare un paradigma planetario.

Prendiamo la Russia. L’analista Nicolai Lilin sostiene che i desideri, le speranze, i sogni delle nuove generazioni sono quel che preoccupa Putin. Se non riuscirà a dare risposte dovrà trarne le conclusioni.

Le banlieu in fiamme sono dietro l’angolo per tutti. Per ogni continente. La modica quantità di menzogne e propaganda, di sublimazione degli istinti, che produce un effetto narcosi, non bastano più a sedare le nuove generazioni.

La fine della sinistra, che sopravvive grazie a narrazioni posticce, militanti, è vicina. Elkann scende e nessuno se lo fila. L’ascensore sociale è bloccato: chi è dentro è dentro, chi è fuori si arrangi.

E mentre il mondo si muove, cerca qualcosa, un Graal, un aleph, uno straccio di algoritmo, noi siamo inchiavardati ai diktat da oltreoceano e a quelli di Bruxelles. La forza bruta e minacciosa dei Lanzichenecchi incombe. Energia pura, positiva, devastante, possente. Ci salveranno loro?

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